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Coronavirus, un medico militare in campo: “Orgoglioso di aiutare gli ospedali” | VIDEO

Il maggiore dell’esercito Nadir Rachedi, medico anestesista, è uno dei 120 operatori messi in campo dalle Forze armate per lottare contro la pandemia. Noi di Iene.it lo abbiamo intervistato con Giulia Innocenzi: “Poter contribuire a fermare il contagio è quello che ci fa andare avanti ogni giorno”

“L’impatto con le terapie intensive è stato duro, ma è un onore aiutare chi lotta contro il coronavirus”. A parlare con Iene.it è Nadir Rachedi, medico anestesista dell’esercito, intervistato da Giulia Innocenzi. Il maggiore Rachedi, 40 anni, è uno dei 70 tra dottori e personale sanitario che le Forze armate hanno messo a disposizione degli ospedali più colpiti dalla pandemia del coronavirus. Ha partecipato alle missioni militari in Libano e Afghanistan, e ora ha appena compiuto 40 anni, proprio mentre lotta aiutando i pazienti a guarire.

Dove è stato inviato a prestare servizio?

Sono a Lodi, dove il ministero della Difesa ha attivato la sanità militare. Sono stato prima nella bergamasca e poi sono stato trasferito a Lodi, perché qui in terapia intensiva c’era maggiore necessità di anestesisti e rianimatori. La situazione è molto complicata, per noi è motivo di orgoglio supportare i colleghi di Lodi, che da almeno un mese stanno facendo un lavoro incredibile, senza sosta. Sono un grande esempio per tutti”.

Come si svolge una sua giornata di lavoro?

Abbiamo turni di dodici ore, che iniziano alle 7.30 al mattino o alle 19.30, anche se a dire il vero sappiamo solo quando montiamo. Siamo impegnati in terapia intensiva, che qui a Lodi è totalmente dedicata ai pazienti con il coronavirus. Al momento sono 24 i posti letto, e pensare che all’inizio ce n’erano appena 8. Un lavoro enorme, fatto con lo stesso personale di prima o anche meno, perché molti medici e operatori o sono in quarantena o sono loro stessi contagiati”.

Qual è stato il momento più duro per lei?

“Sicuramente l’impatto del primo giorno, con la realtà dei fatti, diversa da quella che veniva raccontata dai media. Mi aspettavo una situazione complicata, ma viverla è stato diverso: lì ho capito la necessità di dover far stare tutti a casa. Tutti noi contribuiamo al funzionamento del sistema sanitario e oggi rimanere a casa è un gesto di altissima democrazia”.

Qual è il ruolo delle Forze armate nella battaglia contro il coronavirus?

“Tutti stiamo contribuendo attivamente, non solo in ambito sanitario ma anche con le operazioni come Strade sicure. Inoltre garantiamo la continuità territoriale laddove magari i medici di medicina generale si sono ammalati. Abbiamo anche terminato di allestire un ospedale da campo. Siamo davvero in prima linea”.

Quali sono le differenze tra gli scenari di guerra e la situazione degli ospedali?

“In questa battaglia contro il coronavirus noi italiani abbiamo lo strumento per vincere la battaglia: stare a casa e godersi la famiglia e gli amici. Dobbiamo solo cambiare le nostre abitudini, non ci è chiesto di correre alcun rischio. Il rischio lo corriamo solo se non seguiamo le indicazioni che ci vengono date”.

Emotivamente è stato più difficile trovarsi in Afghanistan e Libano o nelle corsie della terapia intensiva di Lodi?

Siamo abituati a lavorare in ambiente “ostile” e ad adattarci, una dote che in questa situazione è stata fondamentale: essere militari ci ha aiutato. Qui ho avvertito una grandissima solidarietà, tra gli striscioni appesi un po' ovunque a incoraggiare i medici e le pizze che alla sera arrivano per sfamare il personale, che magari per tre o quattro giorni non stacca e non torna a casa dalle famiglie. Tutto questo mi ha inorgoglito tantissimo”.

Lei ha famiglia, maggiore?

“Sì, ho una moglie, anche lei anestesista, e che quindi ben comprende e a volte mi consiglia, e tre bambini piccoli. La grande ha poco più di tre anni e il piccolo ha appena compiuto due mesi. Mia moglie ha raccontato loro che dovevo andare a curare delle persone, a cercare un animaletto che è nell’aria. Non so quando potrò riabbracciare la mia famiglia ma mia moglie, da medico, capisce bene la finalità di questa missione”.

Cosa la fa comunque andar avanti nonostante le difficoltà quotidiane?

“Il sapere di poter contribuire, anche in minima parte, a limitare il numero dei contagi. Alla fine a noi stanno chiedendo solo di restare in casa. Si parla di guerra, di battaglia, ma è solo una guerra di consapevolezza: la consapevolezza che se io sto a casa tutelo il diritto degli altri, che ne hanno più bisogno, di essere curati. Per questo il ministero della Difesa ha lanciato un hashtag per diffondere questo concetto: #aiutaciadifenderti”.

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