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News | di Alessandro Barcella |

8 anni, a lezione di droga e armi dal padre boss. Va allontanato dalla famiglia?

In Calabria sgominato un clan che gestiva un traffico di cocaina e marijuana. Il boss portava con sé ai summit il figlio di 8 anni, a cui aveva spiegato tutto del confezionamento della merce, delle rotte della droga e della gestione degli spacciatori. Il giornalista Giovanni Tizian: “Salviamo questi bambini, ecco come”

Teneva attraverso Messenger i rapporti con gli spacciatori, partecipava ai summit per decidere come gestire il traffico di droga e talora era presente lui stesso alla consegna della merce. Nulla di strano per un narcotrafficante, se non fosse che la persona in questione è un bambino di appena 8 anni.

È l’incredibile vicenda che arriva da Gioia Tauro, in Calabria, dove la Direzione distrettuale antimafia della Procura di Reggio Calabria ha stroncato il business della piccola ma agguerrita organizzazione messa in piedi dal 46enne  Agostino Cambareri (un clan specializzato nello spaccio di marijuana e cocaina).

E di quel figlio di 8 anni, che avrebbe dovuto giocare al pallone o ai videogame invece di trafficare in droga, il boss amava dire ai suoi uomini, con una punta di orgoglio: “Questo qua un giorno mi farà le scarpe”.

I carabinieri, che hanno fermato il gruppo criminale composto da una dozzina di persone, si sono ritrovati a fare i conti con una storia sconvolgente: il bambino era stato educato dal padre a riconoscere le diverse droghe e, intercettato dagli uomini dell’Arma, parlava già da esperto mini-boss, dimostrando grande competenza in materia.

Il padre, hanno spiegato ancora gli inquirenti, educava il suo “rampollo” sulle tratte nazionali e internazionali del traffico di droga, istruendolo anche in tema di armi. Insomma, una formazione a 360 gradi, necessaria per fargli ereditare un giorno la prospera “azienda di famiglia”.

Tutto così assurdo, e forse una conferma in più della bontà del “programma” sperimentale iniziato proprio in Calabria, e fortemente sostenuto dal capo della Procura antimafia di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri. Un programma, quello del tribunale dei minorenni di Reggio, che è unico in Italia e che punta ad allontanare immediatamente i figli da famiglie di questo tipo. Una sorte che forse potrebbe adesso toccare anche al figlio del boss Cambareri, nella speranza che tutta questa “formazione sul campo” non venga mai sfruttata.

Su questa incredibile vicenda e su quello che succede, in particolare, all’interno delle famiglie di ‘ndrangheta Iene.it ha sentito  Giovanni Tizian, pluripremiato giornalista d’inchiesta de l’Espresso e che proprio su questo tema ha scritto nel 2018 il libro “Rinnega tuo padre”.  

“La storia di questo bambino di 8 anni è la conferma che ‘ndranghetisti non si nasce ma lo si diventa in famiglia – spiega Tizian  - attraverso un indottrinamento che parte dall’infanzia e arriva all’adolescenza, quando avviene la maturazione criminale che porterà questi bambini a essere i successori naturali dei loro padri. Ce ne sono centinaia di storie così, in particolare in provincia di Reggio Calabria, dove ci sono i santuari della ‘ndrangheta arcaica”.

Tizian, durante la scrittura del libro, ha avuto modo di incontrarli, questi ragazzi “perduti”: “Ricordo una storia molto simile, quella di un ragazzino di 10-11 anni, costretto a seguire il padre nei suoi traffici criminali con la Campania e la Sicilia, un ragazzino che assisteva alle riunioni segrete sull’arrivo delle navi con i carichi illegali nel porto di Gioia Tauro. La fortuna di questo ragazzo fu che la madre a un certo punto decise di collaborare con la giustizia, strappando quel figlio al padre, che lo voleva far diventare un vero e proprio boss”. Ma non va sempre tutto per il verso giusto.

“Ci sono stati casi in cui ad esempio a 16 anni, con i capi del clan in carcere al 41bis, i ragazzini sono stati costretti a prendere in mano le redini della famiglia. E in questo caso i ragazzi, che gestivano direttamente  estorsioni e gioco d’azzardo illegale, erano ascoltati quanto i capi in prigione”.

E Giovanni Tizian, per fare rendere bene l’idea di quello che succede nelle case di 'ndrangheta, fa un paragone molto forte: “E' un po’ come nelle madrasse islamiche dell’Isis: nella ‘ndrangheta l’addestramento di questi bambini avviene in casa. Poi, una volta usciti,portano quel mondo con sé: ci sono stati episodi di pestaggi di bidelli che si erano permessi di redarguirli. Tutto quello che apprendi in famiglia ovviamente poi lo riporti fuori casa, nei luoghi che sarebbero invece deputati ad altri svaghi di quell’età”.

Ho incontrato alcuni di questi ragazzi. È ovvio che per i bambini il primo modello di riferimento è il padre. Solo una volta lontani da quella famiglia ci si rende conto che si trattava di veri e propri maltrattamenti  psicologici. Pensiamo a questo: se sei il figlio di un boss della ‘ndrangheta esiste un rito, chiamato in calabrese la smuzzunata, dove il padre-boss riunisce in casa tutti i padrini più importanti della zona e mostra loro il bimbo, l’erede naturale di quel potentato criminale. Questi bambini vengono indottrinati fin da piccoli”.

Ma come salvare queste generazioni di figli e nipoti cresciuti col mito della violenza, del sangue, dei soldi facili e del potere? “Sono bambini assolutamente recuperabili – aggiunge Tizian - ed è questo il lavoro da fare. L’antimafia non può limitarsi alla sola repressione.Nascono in paesi in cui non c’è un luogo di aggregazione, un cinema, un teatro: c’è solo il deserto culturale e neanche un numero adeguato di assistenti sociali”.

 Del programma avviato dal 2012 presso il tribunale dei minori di Reggio Calabria Tizian si dice orgoglioso: “Ad oggi ha portato all’allontanamento di almeno una sessantina di bambini e ragazzi, è un programma che colma un vuoto di politiche sociali. Ma non dovrebbe essere un giudice a fare questo, dovrebbero essere i servizi sociali”.

Un’opzione importante insomma che, racconta ancora Tizian, ha prodotto risultati notevoli: “È  capitato spesso che l’allontanamento di questi ragazzi abbia portato le madri a chiedere di unirsi a loro, allontanandosi così dalla famiglia di ‘ndrangheta: una cosa bella, che tra l’altro mette in difficoltà l’immagine degli stessi boss” . E il presidente del Tribunale dei Minori, Roberto Di Bella, ha spiegato a La Stampa come i risultati migliori li stiano avendo con le ragazze, che scelgono di rimanere nelle famiglie affidatarie, lontane dal clan di origine. E se l'ordinanza di allontanamento prevede che a 18 anni possano tornare, sono in pochissimi a farlo. 

Ma qualcosa d'importante, ancora, va fatto, e lo si può senz’altro proporre al nuovo governo appena entrato in carica: “Va modificata la normativa sul programma di protezione. Oggi, non essendo né collaboratori né testimoni di giustizia, le madri e i ragazzi che si sono allontanati non possono rientrare nel programma di protezione. Che fare? Basterebbe aggiungere un articolo, massimo due, alla legge sui testimoni e sui collaboratori”.  La politica vorrà adesso rispondere a una richiesta tanto semplice quanto urgente?

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