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Ilva, tribunale nega la proroga per l'altoforno 2: può essere spento | VIDEO

Il tribunale di Taranto ha rigettato la proroga dell'attività dell'altoforno 2: questo stop può determinare l'inizio delle operazioni di fermata degli impianti dal 13 dicembre. Con Gaetano Pecoraro siamo andati in Belgio per raccontarvi di una presunta strategia di ArcelorMittal, per chiudere gli impianti e guadagnare in borsa dalla vendita delle “quote di inquinamento”

Nessuna proroga, l’altoforno 2 dell’Ilva può essere spento. Lo ha deciso il tribunale di Taranto, che ha negato la richiesta degli amministratori straordinari per poter effettuare interventi di sicurezza su quell’impianto.

Solo il giorno prima la Procura si era espressa a favore della proroga dell’utilizzo e adesso, ad appena due giorni dalla scadenza di quei lavori fissata per il 13 dicembre, si rischia il sequestro dell’impianto.

Il giudice si è espresso in questo modo: “Va rilevato che il termine richiesto per l’adempimento delle residue prescrizioni appare poco più del triplo del termine originariamente concesso dalla Procura, un termine troppo ampio, in palese contrasto con tutte le indicazioni giurisprudenziali e normative, e dunque tale da comprimere eccessivamente l’interesse alla salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei lavoratori”.

A restare sul tavolo, nel giorno dello sciopero generale dei sindacati contro l’annuncio di 4700 licenziamenti, è il “contro piano” del governo, che si propone di produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio entro il 2023, estendendo la cassa integrazione che oggi riguarda 1300 lavoratori.

Insomma è ancora battaglia apertissima sulla sorte dell’acciaieria tarantina di ArcelorMittal, il colosso anglo-indiano che ha acquisito la proprietà dell’Ilva.

Con Gaetano Pecoraro, nel servizio che potete rivedere qui sopra, vi abbiamo parlato proprio di ArcelorMittal, volando in Belgio per intervistare alcuni ex operai delle acciaierie locali, licenziati dal colosso mondiale dell’acciaio.

Vi abbiamo raccontato, anche sulla base di quanto affermato dai commissari italiani,  di una presunta strategia del gruppo, volta a comprare le acciaierie europee concorrenti per poi farle chiudere, a proprio esclusivo vantaggio.

E uno di quegli operai belgi, Frederic, ci ha raccontato: “Si diminuisce il personale, si licenziano gli operai e ogni volta si accetta e si crede che andrà bene anche così ma alla fine dei conti chiudono tutto. Hai presente un limone? Lo spremi, lo spremi e poi lo butti via”.

“Avevamo un’industria molto grande, era su un’area di 40 chilometri”, ha aggiunto l’ex operaio di quella fabbrica, che ai tempi della massima produzione dava un lavoro a quasi 10mila persone.

Nel 2006 però arriva il signor Mittal, imprenditore indiano leader mondiale della produzione dell’acciaio. “Dovevamo fare  un sacco di investimenti, ne hanno fatto qualcuno poi hanno smesso”, prosegue Frederic. “Quando Arcelor ha preso il controllo, ha voluto ottenere un rendimento anche del 10-15% sul capitale investito, un profitto esagerato, una cosa che non si è mai vista in siderurgia. E poi piano piano abbiamo capito che volevano chiudere”.

 “Abbiamo combattuto ma sapevamo che avremmo perso”, racconta Luigi, ex operaio belga di origini siciliane. È uno dei primi a perdere il lavoro e dopo il licenziamento è iniziata una spirale fatta di alcol e depressione, che gli ha fatto perdere sia la moglie che la casa, che ha dovuto vendere. “C’è stato anche chi ha tentato il suicidio”, ci racconta l’ex operaio.

La vita di questi lavoratori è segnata per sempre, come quella di Jobie, che ha perso tutto: “Non vado più in vacanza, si contano i soldi a fine mese, non ho più una moglie. Tra noi c’è chi ha cominciato a bere, non c’era un bel clima nelle case e il morale era a terra. Molti non hanno più trovato lavoro”.

Copione simile anche in Romania, dove la più grande acciaieria del paese, che impiegava 20mila persone, fu acquistata nel 2003 da ArcelorMittal e appena 8 anni dopo aveva solo 700 dipendenti!

Con Gaetano Pecoraro abbiamo scoperto un meccanismo che, se confermato, getterebbe un’ombra lunghissima sulle politiche industriali di colossi come ArcelorMittal. Ce lo spiega ancora Frederic, secondo il quale ridurre drasticamente la produzione potrebbe essere redditizio per l’azienda perché in gioco ci sono le quote di Co2 per produrre, ovvero i “permessi per inquinare”. E così se si produce meno, a causa della riduzione del personale e della produzione, queste quote ottenute varrebbero oro. “Se le rivende in Borsa perché c’è un mercato di queste quote. Ed è un regalo, perché Mittal non le ha mai pagate. È la stessa cosa in tutta Europa”.

Sembra confermarcelo anche Agnese Ruggiero, esperta della ong “Carbon market watch”, che si occupa di inquinamento industriale e del mercato di questi permessi. “Tramite il mercato di emissioni l’industria pesante tra il 2008 e il 2015 ha ricavato circa 25 miliardi di euro. Arcelor Mittal ha fatto un profitto di 1 miliardo e 800 milioni, con questo mercato, in 5 anni”.

Stiamo parlando dunque di un profitto ricavato dalla vendita delle quote gratuite di Co2 assegnate dall’Unione Europea e il tutto senza neanche che ci sia stata una diminuzione delle emissioni inquinanti nell’ambiente.

Un giornalista di Europa Today infine, ha calcolato che in Italia, a fronte del licenziamento a Taranto di 4.700 lavoratori, l’azienda potrebbe incassare un profitto di 400 milioni di euro!  

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