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Palermo, il palazzo dei boss e due casette coraggiose | VIDEO

Rosa e Savina Pilliu combatto da trent’anni contro il palazzo di fronte alle loro due case e contro ciò che rappresenta: la mafia. Nina Palmieri racconta la storia di queste sorelle coraggiose, che ancora oggi continuano a combattere per i loro diritti

Siamo a Palermo. Da una parte c’è un palazzo simbolo della mafia, dall’altra due casette che resistono da 30 anni proprio alla mafia. In quelle casette ci abitavano due sorelle: Rosa e Savina Pilliu. Dall’altra parte Stefano Bontate, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca: alcuni dei più pericolosi boss che hanno insanguinato l’Italia negli anni delle stragi si nascondevano negli appartamenti di quel palazzo.

Savina Pilliu e sua sorella Rosa nascono a Palermo e crescono con la madre. Hanno una vita tranquilla e mandano avanti un piccolo negozio di alimentari. Un giorno, a inizi anni ’80, il terreno dove sono le loro casette attira l’interesse di un imprenditore che le vorrebbe abbattere per costruire un palazzone di nove piani. “È venuto Rosario Spatola, che voleva acquistare le case che possedeva mia madre”. Si tratta di uno dei più importanti costruttori di Palermo ed esponente di spicco di una delle più potenti cosche mafiose italo americane. Il terreno accanto alle casette delle sorelle va a finire nelle mani di Pietro Lo Sicco, un benzinaio diventato imprenditore.

I proprietari delle altre casette iniziano a vendere a quel costruttore per fare spazio al palazzone. Ma Savina, Rosa e la loro mamma non cedono. Così arrivano le prime minacce: “Ci hanno fatto trovare i fusti (i barili di cemento in cui possono essere nascosti per sempre i corpi, ndr): nel linguaggio mafioso i fusti vogliono dire che ci finirai dentro”. Le Pilliu infatti per Lo Sicco rappresentano un grande problema: se loro non vendono le loro casette il palazzo non può essere costruito.

Così Lo Sicco va in comune e ottiene il permesso a costruire. Savina scopre poi che l’imprenditore si era dichiarato proprietario delle loro case. Le due sorelle denunciano l’abuso, ma non succede niente. L’unica cosa a muoversi sono le ruspe di Lo Sicco, che rendono sempre più instabili le loro casette. Solo una persona dà retta alle sorelle: il giudice Paolo Borsellino. “Nel ’92 siamo state più volte a raccontargli tutto”, dice Savina.

Tra gli uomini interessati a quel palazzo ci sono quelli che avevano partecipato all’omicidio di Giovanni Falcone. Uno di questi è Giovanni Brusca, l’uomo che ha azionato il telecomando della strage di Capaci. Brusca comprerà un appartamento nel palazzo di Lo Sicco e proprio lì trascorrerà parte della sua latitanza. Ma Borsellino non avrà tempo di occuparsi di quel palazzo e dei suoi futuri inquilini perché proprio da quel palazzo sarebbe partita la macchina che lo ucciderà.

Savina continua a denunciare Lo Sicco, ma le cose sono sempre più difficili: “Il pm continuava ad archiviare”. E intanto il palazzo è costruito, con i suoi nascondigli per armi e vie di fuga per latitanti. Dopo anni però qualcuno finalmente la ascolta: Lo Sicco finisce sotto processo. “Dal procedimento è emerso che Lo Sicco ha dato 25 milioni all’assessore per il rilascio della concessione senza avere gli atti di proprietà”, dice Savina a Nina Palmieri. Ma si scopre pure che dietro alle società di Lo Sicco c’erano importanti boss mafiosi. Lo Sicco viene arrestato nel ’98 proprio grazie alle denunce e testimonianze delle sorelle Pilliu. “Ci hanno offerto il programma di protezione”, racconta Savina. “Ci avrebbero pagato 4 milioni e dovevamo andare via da Palermo cambiando cognome. Ho detto che accettavo. Ma perché devo andarmene in esilio io? Così non mi hanno dato niente perché non me ne volevo andare”.

Le due sorelle hanno testimoniato al processo contro Lo Sicco ma a Palermo per loro le cose sono sempre più difficili. “Ci siamo ritrovate senza amicizie e senza clienti”, racconta Savina. “Viviamo con la pensione di mia sorella”. Sua sorella Rosa, con la quale Savina ha condiviso ogni momento della battaglia, fino a che Rosa piano piano ha iniziato a perdere la memoria per l’Alzheimer.

I soldi per avere una vita dignitosa e aiutare la sorella Savina li potrebbe avere dallo Stato. “Lo Stato doveva appoggiarmi, non abbandonarmi”, dice.

Dopo l’arresto di Lo Sicco, tutti i suoi beni vengono sequestrati e il suo patrimonio passa sotto il controllo del tribunale che lo gestisce tramite un amministratore giudiziario.

“Doveva mettere in sicurezza gli immobili”, spiega Savina. Cioè doveva mettere in sicurezza le casine. “Il tecnico è venuto a fare un sopralluogo e ha detto che non c’era nessun problema. Ma dopo poco le case sono crollate”. Oltre al danno la beffa: “Siamo state rinviate a giudizio per crollo colposo”. Ci vorranno sette anni di processo per dimostrare che Savina e sua sorella sono innocenti.

“Nel 2018 ho vinto la causa e mi è stato riconosciuto che devo avere i soldi per riparare le case”. E Savina ha ben chiaro chi dovrebbe darglieli: “Se io il danno l’ho avuto da un mafioso e lo Stato si prende beni del mafioso, non dev’essere lo Stato a pagarmi?”. Insomma, a pagare Savina dovrebbe essere l’Agenzia di beni confiscati che dopo la condanna definitiva di Lo Sicco per reati di mafia, ha visto entrare oltre 100 milioni di euro. “Non ci hanno risposto né sì né no”, dice Savina. “Ho fatto la domanda al Fondo vittime di mafia e mi è stata rigettata perché dicono che non sono vittima di mafia”.

“Perché devo ancora combattere per vedere riconosciuti i miei diritti?”. Abbiamo provato ad avere un incontro con il sindaco di Palermo Orlando. Ma non ci siamo riusciti. Eppure quello di Savina e Rosa è un sogno importante: “Con le casette voglio farci delle piccole attività artigianali che non saranno soggette a pizzo perché sono simbolo della legalità. Sono nate legali e devono morire legali”. 

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