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News | di Fabrizio Colarieti |

Strage di Ustica: quella battaglia nei cieli nascosta dallo Stato | VIDEO

Il 27 giugno del 1980, nello spazio aereo tra Ponza e Ustica, il volo di linea Itavia IH870 esplode e si inabissa nel Mar Tirreno, trascinando con sé i corpi di tutti e 81 gli occupanti. Sono passati 39 anni, tra depistaggi e altre morti sospette, e il “muro di gomma” dei silenzi e delle coperture di Stato non si è ancora sgretolato. Ve ne abbiamo già parlato anche con Gaetano Pecoraro

“Su quel volo, insieme a mio padre, dovevo esserci anche io, avevo già il biglietto in tasca. Poi un impegno improvviso nell’azienda di famiglia, dove finita la scuola davo una mano, mi trattenne e non andai. Era la seconda volta che papà volava per lavoro. Quel giorno per me rappresenta la data di una strage. Non è stata una casualità, hanno voluto creare un danno. La verità la sappiamo, basterebbe poco, ovvero la volontà di andare a chiederla. Perché in qualche cassetto c’è”.

Stefano Filippi, 55 anni, parla di quella notte, tra il 27 e il 28 giugno 1980, e ripete le stesse parole pronunciate nell’aula bunker di Rebibbia, il 16 gennaio 2001, davanti alla Corte d’Assise di Roma dove si stava celebrando un processo storico, quello per i depistaggi della strage di Ustica. Il dibattimento era iniziato da pochi mesi e dinanzi a giudici e cronisti sfilavano imputati e testimoni. L’aria era carica di aspettative, perché quel processo arrivava esattamente vent’anni dopo la notte in cui il Dc9 della compagnia Itavia, mentre era in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio, era improvvisamente piombato nella fossa più profonda del Tirreno (una strage silenziosa alla quale abbiamo dedicato il servizio che potete rivedere sopra).

Stefano, oggi vicepresidente dell’associazione dei familiari delle vittime, all’epoca della strage aveva 16 anni. Quel giorno, davanti ai giudici, aveva raccontato tutto d’un fiato la sua Ustica, partendo dalla telefonata di un amico di famiglia che la mattina del 28 giugno gli aveva comunicato che suo padre Giacomo non c’era più. “Mi sono subito reso conto che era successo qualcosa di grave. Ricordo che a stento riesco a prendere la bicicletta per andare dal giornalaio a prendere tutti i quotidiani. Mi tremavano le gambe, avevo il batticuore. Leggo i giornali davanti all’edicola, seduto in una panchina, trovo la lista degli scomparsi e leggo il nome di mio padre”. Stefano pensa che non può essere vero, che una cosa del genere può succedere a chiunque, ma non a lui. Invece, è tutto vero.

Il nome di Giacomo Filippi da Forlimpopoli, 47 anni, imprenditore e titolare di un’azienda che commercializzava carni fresche e surgelate, era in quella lista di passeggeri. Ustica a Stefano Filippi, oltre alla verità che cerca ancora oggi insieme agli altri familiari, ha strappato un padre di cui non ha riavuto neanche il corpo: ufficialmente disperso, in mare, insieme ad altri 41 passeggeri.

Per capire Ustica bisogna ricominciare dall’inizio e ascoltare le storie dei familiari, prima ancora di addentrarsi nelle carte dell’imponente istruttoria condotta dal giudice Rosario Priore, l’unica che abbia fissato alcuni punti fermi su quanto accadde, e dei procedimenti civili che negli ultimi anni hanno cristallizzato lo scenario in cui tutto avvenne e le responsabilità di chi non riuscì ad evitare che tutto questo diventasse uno dei più longevi misteri della storia repubblicana. Perché quella notte è accaduto qualcosa che ancora oggi gli italiani non devono sapere. Un segreto inconfessabile che coinvolge governi e interessi internazionali di fronte ai quali la vita di 81 cittadini è passata in secondo piano. Cinicamente l'Italia ha scelto di pagare il prezzo più basso, la perdita di chi era su quel volo, in cambio dell'obbedienza a un segreto, del silenzio e dell’impunità. Un silenzio assordante, che da quasi quattro decenni non lascia spazio al bisogno di verità e di giustizia.

Da subito quanto accaduto doveva sembrare una sciagura aerea del tutto casuale, forse un caso remoto di cedimento strutturale dell’aereo. Ma a manifestare i primi dubbi, già poche ore dopo l’incidente, era stato il presidente della compagnia Itavia, Aldo Davanzali, il primo a denunciare pubblicamente che il suo aereo era in volo in perfette condizioni e che a tirarlo giù poteva essere stato solo un missile. Aveva ragione, ma era già troppo tardi perché tutti avevano iniziato a puntare il dito contro la sua compagnia, accusandola di far volare aerei “carretta”. Un diluvio di parole tombali che arrivavano dai piani alti del governo e che, nel giro di qualche mese, portarono la compagnia calabrese verso il fallimento. Davanzali aveva ragione, perché quella sera, lassù, a metà strada, tra le isole tirreniche di Ponza e Ustica, c'era la guerra: questo, anni dopo, hanno raccontato i magistrati ai familiari delle vittime, senza però lasciare loro la possibilità di gridare “assassino” a qualcuno, perché, a dirla in termini giuridici, sono ignoti gli autori del reato.

Il sospetto che aleggia attorno all’affaire Ustica, sostenuto da sufficienti elementi di prova, fin dal momento in cui il Centro di controllo di Roma Ciampino perde i contatti con il volo IH-870, è che lo Stato, cioè chi doveva garantire l’incolumità dei passeggeri del volo Itavia, ha chiuso tutti e due gli occhi permettendo anche a Paesi alleati di violare la propria sovranità. Si è salvato solo un tracciato radar, quello di Ciampino, l’unica prova documentale sopravvissuta alla sistematica azione di depistaggio e distruzione di prove che negli anni ha accompagnato questa storia. Una storia segnata dai “non so” e dai “non ricordo”, dai colpi di lametta che tagliano intere pagine di registri e dalle morti sospette, dalle bobine cancellate agli aerei che volano senza nome. È scampato solo quel tracciato e un’unica evidenza a prova di dibattimento: l’aerovia percorsa dal Dc9, l’Ambra 13, nel “Punto Condor” era interessata da un intenso traffico militare.

Dunque chi doveva difendere lo spazio aereo voltò le spalle ai propri doveri e negli anni successivi si impegnò a condizionare le indagini fino ad arrivare a sostenere tesi bizzarre, come la presenza di una bomba a bordo, circostanza smentita da autorevoli perizie, ma da sempre fortemente sostenuta dall’Aeronautica e da ambienti ad essa vicini e, oggi come allora, impegnati nel sostenere, contro ogni logica, una ricostruzione che non sta in piedi. Un ordigno che sarebbe stato collocato nella toilette e che, verosimilmente, esplose in volo senza lasciare tracce consistenti di esplosivo e nonostante l’aereo al suo arrivo a Bologna avesse accumulato, tra uno scalo e l’altro, ben due ore di ritardo. Un attentato che, tra l’altro, nessuno ha mai rivendicato. Per capire la consistenza di questo depistaggio basta narrare l'episodio dei due consulenti infedeli che, nonostante fossero stati nominati da Priore, quindi dall'accusa, mantenevano assidui contatti telefonici con ufficiali dell'Aeronautica indagati nella stessa inchiesta.

Esistono le registrazioni audio, originali, con le voci dei controllori di volo (reperibili sul sito stragi80.it). Abbiamo cioè una prova, una conferma, che quella notte, a Ciampino, l’Aeronautica non si trovò a fare i conti con un normale incidente aereo. Nello scalo romano si materializzò, già nei primissimi momenti che seguirono l’ultima chiamata radio senza risposta verso il volo Itavia, il sospetto che il Dc9 era entrato in collisione con un altro velivolo, forse americano. A Ciampino la Difesa aerea, prima ancora di occuparsi dei soccorsi, si affrettò a chiedere all’attaché militare dell’Ambasciata Usa di Via Veneto, se per caso - in volo o in mare - c’erano anche loro. Con i “ritorni” radar di Ciampino venne disegnato quel tracciato che mostrava, a parere di due tra i massimi esperti di sicurezza aerea (gli americani John Transue e John Macidull del National Transportation Safety Board) la presenza, certa e inconfondibile, di diversi intrusi che in più punti avevano incrociato la rotta del Dc9 fino al Punto Condor, dove l’aereo smise di trasmettere a terra la sua posizione. Di più: due “echi” fissavano, nero su bianco, la traccia, l’impronta digitale, del caccia che aveva compiuto la manovra d’attacco da manuale, tagliando la rotta dell’Itavia da ovest verso est. Ombre veloci che rimangono impresse in una piccola traccia, il tempo monco di un “Gua…”, incisa nell’ultimo pezzetto del nastro che girava nella scatola nera del Dc9: un frammento di parola - che potrebbe essere "Guarda" - che non dà risposte, ma solo un indizio. Sull’aereo, tranne il comandante Domenico Gatti, colui che gridò al microfono quella parola che muore in gola, nessuno ebbe il tempo di accorgersi di quanto stava avvenendo.

La Nato ha detto al nostro governo che in volo c'erano svariati velivoli militari - 21 di cui 4 ancora oggi da identificare -, ma non una parola in più, non una prova utile a identificare il Paese, o i paesi, che parteciparono a quella che Priore definì senza mezzi termini “un’operazione di polizia internazionale”. La Nato parla anche della presenza di una portaerei nel Tirreno, forse francese o americana, di due caccia francesi e di un aereo radar Awacs. Quella sera, sarà un caso, dalla base francese di Solenzara in Corsica decolleranno diverse coppie di Mirage e in mare c’era almeno una portaerei transalpina, la Clemenceau, ad assisterli. Elementi che trovano conferme nelle dichiarazioni rilasciate in contesti diversi, ma anche dinanzi a un giudice e mai ritrattate, da Francesco Cossiga, che all’epoca era il capo del governo, secondo cui i caccia della Marina francese avevano colpito il volo sbagliato nel posto giusto: l'obiettivo era l’aereo con a bordo Gheddafi, non il Dc9. Scenario di cui la nostra intelligence militare, sempre a detta del futuro presidente della Repubblica,era venuta a conoscenza in diretta, tanto da consentire al leader libico di scampare all'imboscata. E, in tal senso, è memorabile quella frase pronunciata da Cossiga - “Mi hanno fatto fesso!” - riferita, con ogni probabilità, al potere, sovranazionale, che quella notte aveva agito infischiandosene delle prerogative di Palazzo Chigi.

La storia di Ustica è piena di pezzi mancanti, nonostante tutto questo si sia consumato sotto gli “occhi” di decine di stazioni radar, italiane e straniere, sopra le antenne di una dozzina di basi Sigint dell’intelligence americana, sotto l’ombrello di copertura di numerosi satelliti spia e a portata, per l'appunto, di un aereo radar in volo sull’Appennino tosco-emiliano. Anche la cosiddetta direttiva Renzi che avrebbe dovuto favorire la ricerca della verità, togliendo il segreto su informazioni fino ad allora riservate, è rimasta lettera vana: la Difesa, ad esempio, ha consegnato i documenti con un buco di sei anni, cioè dal 1986 in poi.

Nel ’99, dopo nove anni di istruttoria, il giudice Priore ha scritto che il volo Itavia 870 è rimasto vittima di “un’azione militare di intercettamento messa in atto, verosimilmente, nei confronti dell’aereo che era nascosto sotto di esso”. "Un atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, un’operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui furono violati confini e diritti".

L’Itavia 870 è la vittima fortuita di questa azione: di una “near collision” con un altro velivolo o, peggio ancora, abbattuto da un missile. E poi, come non ricordare quel MiG 23 libico ritrovato sulla Sila, caduto, dice la nostra Aeronautica, il 18 luglio 1980, perché rimasto senza carburante, ma con dentro un pilota che indossa divisa e anfibi della nostra Aeronautica. Un pilota morto almeno venti giorni prima, forse addirittura sempre quel 27 giugno. Un MiG con qualche buco di troppo sulla carlinga, che interessa a molti: alla Cia, ai nostri Servizi, ai Carabinieri di Crotone, che lo cercarono a fine giugno e che negheranno per anni di essersene interessati. Un caccia di un Paese ostile che verosimilmente “buca” lo spazio aereo italiano mentre nel basso Mediterraneo è in corso un’imponente esercitazione della Nato. Forse la chiave di volta è proprio il suo ruolo. Forse, come disse Giovanni Spadolini ai giornalisti: “Scoprite cosa è successo a quel MiG caduto sulla Sila e troverete la chiave per capire la strage di Ustica”.

"Auspichiamo che la Procura di Roma indaghi anche sui depistaggi che persino negli ultimi anni sono stati perpetrati distorcendo ancora la verità", afferma Daniele Osnato, uno dei legali dei familiari delle vittime. "Ed auspichiamo - va avanti l'avvocato - che le indagini siano estese anche alle modalità con cui qualche ministero ha ottemperato all'obbligo di desecretazione degli atti. Il Governo, dal canto suo, dovrà chiedere conto dell'operato di alcune decine di depistastori già identificati e delle responsabilità dei 'Paesi amici' che quella notte giocavano alla guerra. È inaccettabile che ci siano, ancora oggi, persone sorde alle concrete esigenze di verità e di giustizia, che lucrano sul silenzio e sulla vita negata a 81 italiani. Non ci fermeremo mai. Né i parenti delle vittime né i cittadini italiani possono tollerare che certe lobby, politiche e militari, continuino a distorcere la verità e a mistificare le risultanze processuali speculando, alla ricerca di una inutile notorietà, sulla memoria delle vittime".

La Corte d’Appello di Palermo, in sede civile, con cinque distinti pronunciamenti, ha confermato la genuinità delle conclusioni dell'inchiesta Priore aprendo la strada al riconoscimento di risarcimenti milionari (in gran parte non ancora elargiti) nei confronti dei familiari delle vittime e degli eredi di Davanzali. Un’inchiesta della Procura di Roma, ispirata dalle rivelazioni di Cossiga, invece, sta cercando i tasselli mancanti attraverso nuove rogatorie internazionali (promosse verso Stati Uniti, Francia, Nato e Germania). Nuovi testimoni hanno iniziato a fornire elementi o semplicemente a confermare i sospetti che le precedenti indagini non erano riuscite a tradurre in prove. Ma la verità, che ad ogni anniversario sembra a portata di mano, continua a rimbalzare sul muro di gomma. Un bisogno da sempre orfano del sostegno dello Stato e della volontà politica di andare fino in fondo. Lo stesso Stato che per questa storia ha processato più volte se stesso. Lo stesso Stato chiamato a risarcire i familiari delle vittime. Lo stesso Stato che custodisce gelosamente un segreto, e con esso le risposte che Stefano attende da 39 anni.

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