Coronavirus, seconda ondata a Milano: siamo di nuovo impreparati? | VIDEO
C’è qualcosa che poteva esser fatto diversamente e meglio in questa pandemia? E cosa dovevamo potenziare tra la prima e la seconda ondata? Gaetano Pecoraro ci racconta cosa sarebbe andato storto con il piano pandemico nel nostro paese e intervista i medici di alcuni ospedali milanesi sulla nuova emergenza
Le cose potevano andare meglio di come sono andate nella pandemia di coronavirus in mezzo alla quale ci troviamo? Gaetano Pecoraro intervista Paolo Lunelli, ex generale dell’esercito, autore di un report dettagliato sul piano pandemico che avremmo dovuto avere ma che non avevamo.
“L’Italia aveva un piano pandemico del 2006”, dice Lunelli. Il piano pandemico non è altro che un insieme di procedure da attuare in caso di pandemia per contenerne gli effetti. Secondo alcuni calcoli la mancanza di un piano pandemico nel nostro paese potrebbe aver comportato moltissimi morti in più. “Diecimila morti minimo”, è l’opinione dell’ex generale. Nel 2013 il Parlamento Europeo dice agli stati membri che “ogni paese doveva fare il piano pandemico e aggiornarlo, e comunicare gli aggiornamenti”. “Lo scenario del 2013 dice: la prima ondata pandemica dura due o tre mesi. In quel periodo non ci sono mascherine, non ci sono dispositivi di protezione. Diceva: ‘fate scorta per questa durata’”. Non solo: “L’ultimo campanello d’allarme c’è stato nel 2018 a Copenaghen”, continua Lunelli. “Discorso di apertura: ‘Siete pronti ad affrontare una severa pandemia?’”.
Ma se a febbraio siamo stati colti impreparati, cosa è successo con la seconda ondata di coronavirus? Nella regione più colpita dal Covid, la Lombardia, c’è chi sostiene che tra la prima e la tanto annunciata seconda ondata, nessuno avrebbe potenziato in concreto e di molto le strutture sanitarie. Questo è almeno quello che ci raccontano alcuni medici. “Non è stata appesa neanche una mensola dopo l’ondata di marzo”, dice un dottore dell’ospedale Niguarda di Milano a Gaetano Pecoraro. “Siamo stati di nuovo investiti da una tsunami inatteso: è difficilissimo da accettare”.
“Il Niguarda è stato scelto come ospedale Hub del Covid dalla regione Lombardia, cioè come punto di riferimento per il Covid”, spiega il medico. “Ci sono parecchie persone da ricoverare”. Queste persone, come a marzo, sarebbero state messe in un vecchio padiglione degli anni ’30 che durante l’estate andava preparato per la seconda ondata di coronavirus che tutti sapevano sarebbe arrivata. “Il padiglione ha ricevuto degli stanziamenti della Regione, diverse decine di milioni di euro”, dice il medico. Soldi che però, se quanto ci racconta questo medico fosse vero, non sarebbero stati usati. “Ci sono forse 40 posti nel padiglione, ma con gli stessi problemi che c’erano allora: i percorsi che separano ciò che è ‘sporco’ da ciò che è ‘pulito’ sono percorsi promiscui, spesso separati da una linea di scotch per terra. Avere percorsi promiscui oggi vuol dire continuare a contagiare. Un letto di terapia intensiva ha bisogno di 5, 6, 7, prese elettriche. Lì per ogni letto ci sono due prese elettriche”.
Eppure a maggio il governo aveva stanziato 1,2 miliardi di euro per il potenziamento delle terapie intensive. E non sarebbe finita qui, secondo il racconto del medico: “Sono stanze che hanno dei finestroni, come fare una terapia intensiva a casa mia”. Una delle cose cosa che ci ha lasciati più a bocca aperta di quanto ci ha raccontato questo medico è un’altra. “Da marzo a oggi nessuno ha fatto uno screening sistematico degli operatori sanitari, anche per chi lavora nel Covid”, sostiene il medico del Niguarda. Gaetano Pecoraro va di persona a verificare la situazione nell’Area Covid del Niguarda: quella che dovrebbe essere un’area sorvegliata e isolata sembrerebbe una specie di cantiere aperto.
Gaetano Pecoraro è andato anche fuori da questo pronto soccorso per capire come stanno le cose. La Iena mostra la situazione anche in altri ospedali milanesi, come potete vedere nel servizio qui sopra. E, come potete vedere sempre nel servizio qui sopra, abbiamo provato a contattare tutti i direttori di tutti gli ospedali che abbiamo visitato ma nessuno ha voluto parlare con noi, e alla fine ci ha risposto solo il direttore generale dell’ospedale San Paolo e Carlo.