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Coronavirus, negli Stati Uniti una seconda ondata? No, una gestione sciagurata della pandemia

Per il quinto giorno consecutivo gli Stati Uniti registrano un record nell’aumento di casi di coronavirus. Ma più che di una seconda ondata si tratta dei frutti di una gestione sbagliata della pandemia, segnata da riaperture troppo affrettate e sottovalutazione della gravità della crisi. Un pericolo che per fortuna l’Italia ha finora evitato con un lockdown che non è stato troppo lungo, ma esattamente quanto necessario

Cinquantaduemilanovecentottantadue. O, più semplicemente, 52.982. E’ questo l’impressionante numero di casi di coronavirus che si sono registrati solo ieri, 1 luglio, negli Stati Uniti. Che arrivano così a oltre 2 milioni e 680mila positivi, con 128mila vittime. Un aumento di casi esorbitante, il più alto dall’inizio della pandemia, che supera i record segnati negli ultimi quattro giorni. Tanto che c’è chi grida all’allarme della “seconda ondata” nel Paese che finora ha pagato il tributo più alto di vite al coronavirus.

Mentre il presidente Trump continua a sminuire il problema, addirittura scherzando sull’uso della mascherina (“La metto perché mi dona”, ha dichiarato), i suoi consiglieri iniziano a essere seriamente preoccupati: "Potremmo avere 100mila nuovi casi al giorno negli Stati Uniti se non riusciremo a controllare l'epidemia”, ha dichiarato Anthony Fauci, consigliere della Casa Bianca per la crisi del coronavirus. “La situazione è fuori controllo".

Preoccupazione condivisa anche dal sindaco di Houston, in Texas, che ha annunciato che gli ospedali “hanno praticamente raggiunto la capienza massima”. In una città che conta oltre due milioni di abitanti. Ma parliamo davvero di una seconda ondata di contagi, oppure il problema è un altro? Per capirlo è fondamentale andare a leggere i dati sulla pandemia negli Stati Uniti, che mostrano come più che una seconda ondata siamo di fronte a un’onda lunga di una pandemia gestita male. A essere più colpiti in questa fase, infatti, sono Stati che erano stati in larga misura risparmiati durante il picco che ha colpito la città di New York: Florida, Texas, Arizona e California.

In Florida l’aumento di casi è stato di 6.563, in Texas di 8.076, in Arizona di 4.753 e in California di 6.682. Quasi la metà dei nuovi casi è concentrata in questi quattro Stati. Emblematico, da questo punto di vista, è proprio il caso del “Golden State”: a seguito dell’esplosione dei contagi, il governatore della California si è trovato costretto a imporre un nuovo lockdown in 19 contee compresa quella di Los Angeles. Parliamo di oltre il 72% degli abitanti dello Stato, che conta una popolazione di quasi 40 milioni di persone.

Insomma dal 7 maggio, il giorno in cui la California ha rilasciato le prime linee guida per la riapertura, i casi sono esplosi e il governo è stato costretto a ritornare sui suoi passi. E lo stesso hanno fatto l’Arizona e la Florida, ma non (ancora) il Texas che ha finora confermato la politica delle riaperture. 

E questo indica con chiarezza una cosa: la rimozione troppo rapida delle restrizioni ha portato di nuovo fuori controllo la pandemia, soprattutto in zone meno colpite inizialmente e che quindi potrebbero aver sottovalutato la gravità della situazione. A suggerirlo era stato lo stesso consigliere Fauci, che già la scorsa settimana aveva parlato di “riaperture forse troppo anticipate”, causando l’ira del vicepresidente Mike Pence che ha invece difeso la scelta del governo.

La precipitosità della rimozione delle misure di contenimento è evidente in questo grafico della Johns Hopkins University: a curva non ancora appiattita, la pandemia ha ripreso immediatamente vigore appena la soglia di guardia è calata.

Una scelta molto diversa da quella fatta dall’Italia, che ha mantenuto lo stringente lockdown in tutto il territorio nazionale finché la curva epidemica non è davvero stata sotto controllo in tutto il Paese, senza cedere alla tentazione di riaprire nelle zone meno colpite come quelle del Sud Italia. Una scelta azzeccata quella del governo italiano, tanto che l’Oms è arrivata a definire “un modello” il nostro sforzo per contenere il coronavirus: “Ribaltata una situazione spaventosa”, ha detto il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesu. Perché, vale la pena ricordarlo, solo 3 mesi fa l’Italia era l’epicentro globale della pandemia.

I dati sui contagi negli Stati Uniti però indicano anche altri due fattori che può valere la pena analizzare: l’età dei contagiati e le temperature delle zone attualmente più colpite

Per quanto riguarda l’età, i nuovi casi di coronavirus si concentrano soprattutto tra i più giovani: a differenza del passato, quando la fascia più colpita era quella degli over 65, adesso i contagi si concentrano in grande maggioranza nella porzione 18-49 anni. Sebbene non sia ancora chiara la causa di questo cambiamento, c’è chi negli Stati Uniti imputa allo scarso rispetto del distanziamento sociale e delle regole igieniche da parte dei giovani. Una spiegazione forse superficiale, che però si unisce a un altro dato probabilmente positivo: l’impennata di casi non è per adesso coincisa con un’impennata di morti, anche perché il coronavirus ha dimostrato di essere più pericoloso per gli anziani e per i soggetti già gravati da precedenti patologie.

Infine c’è un ultimo dato da analizzare, ovvero quello delle temperature degli Stati più colpiti: Florida, Texas, Arizona e California fanno tutte parte della cosiddetta “Sun Belt”, la cintura del sole composta dagli Stati più caldi dell’Unione. Una brutta notizia, se si considerano le speranze che il caldo potesse in qualche misura ‘sconfiggere’ il coronavirus. Ovviamente non è questo singolo dato a dare una risposta sicura in merito, però sembra suggerire che il contenimento della pandemia in Europa sia stato più il frutto delle misure di contenimento che dell’aumento delle temperature con l’arrivo dell’estate.

In conclusione, più che vittime di una seconda ondata gli Stati Uniti sono vittime dell’incompetenza e superficialità con cui la pandemia è stata gestita. Non a caso Donald Trump è sempre stato tra i più accesi sostenitori dell’inutilità delle misure di contenimento. Che sia solo un caso? Se volete la controprova, citofonate a Jair Bolsonaro.

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