Sara: “Soli, in casa, ridotti al silenzio: per noi ragazzi malati psichiatrici è sempre lockdown”
Sara Matuozzo, 22 anni, ci ha contattato per lanciare un appello e per raccontarci in tempi di lockdown il suo, quello che vivono tantissimi ragazzi e adulti malati psichiatrici. Spesso soli, in casa, ridotti al silenzio: tutti i giorni, tutto l’anno. “Il dolore dentro mi ha portato all'autolesionismo, a non capire se intorno a me c’è la realtà o un sogno terribile”. Il suo incubo è iniziato a scuola, tra bulli e notti insonni al computer
“Sono in quarantena da una vita, dentro a un dolore che mi ha portato all'autolesionismo, a non capire se intorno a me c’è la realtà o un sogno terribile. Spesso sola, in casa, ridotta al silenzio, purtroppo come tantissimi malati psichiatrici”, ci dice al telefono Sara Matuozzo, 22 anni. Si è trasferita da poco a Milano per vivere con il fidanzato, sta ancora male: ci ha contattato per raccontarci il suo lockdown di dolore, fin da adolescente. È lo stesso che vivono tutti i giorni, tutti gli anni, tanti ragazzi e adulti che soffrono come lei in mezzo a un incubo che non ha scadenze, almeno a breve.
Come è iniziato il tuo viaggio nel dolore?
“Ho iniziato a stare davvero male in terza media, a 13 anni. Ero sempre giù. Dormivo tutto il giorno, stavo chiusa in casa, di notte poi restavo sveglia al computer e così non andavo più nemmeno a scuola. Ho incontrato una preside molto gentile e molto dolce: capì subito il problema, mi ha chiamato lei visto che non tornavo in classe e mi ha dato un grande aiuto. Per esempio potevo entrare quando volevo a scuola, quando mi svegliavo: aveva capito anche prima di noi che era depressione”.
C’erano problemi con i compagni di classe?
“Sì, mi prendevano in giro. In alcuni casi c’è stato vero bullismo: mi chiamavano continuamente ‘sfigata’ e mi escludevano. Magari perché ai tempi ero bruttina, o almeno io mi vedevo così allo specchio: mi facevo schifo. Di sicuro non volevo farmi vedere da nessuno e non volevo incontrarli. In fondo erano le solite paturnie da adolescente ma io le vivevo con un dolore enorme. È questo il mio problema”.
Cioè?
“Non ho mai saputo gestire le emozioni, perdo il controllo con reazioni impulsive di ira incontrollata, come i capricci terribili di una bambina che non ce l’ha fatta a crescere, e soprattutto con grandissimo dolore. Anche cose che, ripensandoci razionalmente, non sono così gravi, mi sembrano la fine del mondo. Il dolore emotivo mi distrugge: confusa, mi chiudo in una bolla di sofferenza dai cui escludo il mondo esterno. Il cuore del mio problema è qui, poi ho iniziato a soffrire anche di ansia e attacchi di panico. Ho dovuto abbandonare le superiori. A 16 anni ho iniziato con la psicoterapia che mi ha aiutato tantissimo e il giorno dopo il compleanno dei miei 18 anni con la psichiatria”.
Com’è andata?
“Male. Mi è stato diagnosticato un disturbo della personalità bordeline, quello con cui convivo con le mie crisi di dolore e di ira, con i vortici delle emozioni che mi travolgono. A volte il dolore è talmente forte che sono fatta del male per non sentire così tanto quell’altra sofferenza. Sì, sono arrivata all'autolesionismo con il rasoio: non per uccidermi, per sentire bruciare la pelle e dimenticarmi del dolore dentro. Dopo 45 minuti di colloquio mi hanno prescritto tre farmaci. Tra questi c’era un antipsicotico che è stato un altro mio incubo”.
Perché?
“Premetto che non voglio criticare l’uso degli psicofarmaci, è che con me con quello non è andata bene. Quel colloquio tra l’altro mi è sembrato poco tempo per decidere di lasciare in mano a una diciottenne con istinti anticonservativi (mi tagliavo!) medicine così forti. Non potevo farmi del male anche con quelle? Soffro anche di depersonalizzazione e derealizzazione. In pratica la fuga dal dolore diventa come un uscire dal mio corpo, con una percezione che cambia, intanto la realtà intorno non sai più se è vera o è tutto un sogno. L’antipsicotico ha aggiunto uno stordimento continuo. Non riuscivo più a ragionare normalmente. Canto e compongo canzoni: non riuscivo più nemmeno a fare quello”.
Gli psicofarmaci però servono. Vanno presi.
“Io quello l’ho smesso, anche se continuo ovviamente con psichiatria e psicoterapia. Come purtroppo a volte con i ricoveri. Avevo trovato lavoro come barista, il proprietario, altra persona splendida come la mia preside, ha visto che avevo tremori continui alle mani. Mi ha preso da parte: ‘Prendi farmaci’. ‘Sì’. ‘Ti aiuto’. Ce l’ho fatta: sto ancora male, ma almeno non sono sempre stordita e mezza addormentata con lo sguardo vuoto, spento”.
Con il lockdown com’è andata?
“Male come a tutti, ma non peggio rispetto agli altri. Chi ha problemi psichiatrici come me vive sempre in un lockdown, tutti i giorni, tutti gli anni, anche quando non ci sono quelli per il coronavirus. Siamo soli, spesso o quasi sempre in casa, ridotti al silenzio sociale da queste malattie. Prigionieri delle nostre emozioni e dell’incomprensione. Ho raccontato la mia storia per questo, per dire a chi vive così, nel dolore, che siamo in tanti. Spesso ci sentiamo abbandonati a noi stessi, non ascoltati: dobbiamo riuscire a farci sentire. Aiutateci tutti a liberarci almeno dal lockdown dell’incomprensione”.