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Troppi misteri nel rapimento di Silvia Romano? | VIDEO

Con Massimo Alberizzi, storico corrispondente del Corriere della Sera, analizziamo le troppe cose che sembrano non tornare nella vicenda del sequestro di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia  

Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano sulla vicenda di Silvia Romano, la cooperante milanese sequestrata in Kenya il 20 novembre del 2018 e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia l’8 maggio del 2020. 

Una vicenda che ha letteralmente diviso l’opinione pubblica e sulla quale sembrano ancora tante le cose che non tornano. 

Incontriamo Massimo Alberizzi, storico corrispondente del Corriere della Sera, consulente delle Nazioni Unite incaricato di investigare sul traffico d'armi in Somalia e oggi direttore della testata online Africa-Express sulla quale continua a pubblicare le sue inchieste.

“Io ho cercato di capire cosa stesse succedendo…”, racconta Alberizzi, che per lunghi mesi è stato sul campo, in Kenya, per cercare di sciogliere alcuni di questi misteri. “Non conveniva liberare Silvia Romano. L’Italia non aveva nessun interesse a liberarla in fretta…”, esordisce il giornalista. 

Sono tante le cose che dobbiamo chiederci a proposito del rapimento di Silvia Romano: Silvia poteva essere liberata prima? È stato fatto tutto il possibile per portarla presto a casa? Dove sono stati, se ci sono stati, gli errori?

Partiamo dalla cronaca: è il 20 novembre del 2018 quando verso le sette di sera un gruppo di uomini armati con fucili e machete piomba nel villaggio di Chakama, dove Silvia vive e lavora come cooperante e dopo avere aperto il fuoco per spaventare i presenti, la preleva con la forza per poi scappare a piedi scomparendo nella foresta.

Dopo il rapimento un gruppo di ranger della zona si mette sulle tracce del commando e, seguendo le urla della ragazza, arriva fino al fiume Galana dove sulla sponda opposta vede Silvia insieme ai suoi rapitori 

Massimo Alberizzi racconta che un ranger “aveva individuato il bivacco, chiama con la radio dicendo ‘possiamo arrivare, l’abbiamo trovata!, e rispondono ‘no, aspettate i rinforzi…”.

Insomma Silvia sarebbe stata lì, davanti a loro,  ma dai piani alti sarebbe arrivato il primo stop. 

“Li lasciano praticamente andare, questi scompaiono…”,  aggiunge Alberizzi. E così la prima occasione buona per togliere Silvia dalle mani dei suoi aguzzini svanisce insieme a loro.

La polizia keniota fa partire delle ricerche serratissime con gli elicotteri che iniziano a sorvolare la zona del rapimento da una parte all’altra del fiume. Vengono interrogate molte persone, ne vengono arrestate altrettante per poi scoprire che Silvia è in mano a tre dei rapitori che puntano verso nord, dritti al cuore della foresta.

“Boni Forest è al confine tra Kenya e Somalia, dove non ci va neanche la polizia… È un covo di Al Shabaab”, racconta ancora Alberizzi.

Stiamo parlando della cellula somala di Al Qaeda, gli stessi che qualche anno prima del rapimento di Silvia erano entrati in un campus dell’università di Garissa in Kenya, e avevano trucidato 147 ragazzi a sangue freddo. 

È anche per questo che inizialmente si pensa ad un rapimento con finalità terroristiche piuttosto che per un semplice riscatto. Una cosa che però a Massimo non torna

“No perché in questi casi, li ho visti, ammazzano prima tutti, anche perché ci sono i testimoni quindi è meglio togliere di mezzo i testimoni, invece qui, mi ha sempre dato l’idea che fosse una banda armata…”.

E in effetti, stando ai racconti dei testimoni, i rapitori avrebbero sparato in aria, ferendo delle persone ma casualmente. E, come ha raccontato alla tv un testimone, parlando del dialogo tra i rapitori e Silvia, “le chiedevano i soldi, vogliamo i soldi, vogliamo i soldi non ti faremo del male”.

La polizia a distanza di una settimana dal rapimento pubblica le foto di 3 uomini mettendo sulla loro testa una taglia da un milione di scellini. “È ridicolo, sono 7mila euro”, spiega ancora Alberizzi, “non puoi dare due anni di stipendio ad uno che rischia di fuggire tutta la vita perché si trova tra due fuochi”.

D’informazioni infatti ne arrivano ben poche ma nonostante questo i rapitori sembrano sentire il fiato sul collo… “Stanno facendo molti errori”, ha detto il capo della polizia locale al Corriere della Sera.

Ma a un certo punto, stando sempre alle scoperte di Massimo Alberizzi, per la seconda volta si intravede un barlume di speranza. “C’è uno che viene chiamato come scout dai ranger, trova i rapitori con Silvia febbricitante. Cosa fa lo scout? Va in un villaggio dove c’è un presidio dell’esercito e dove sono tra le altre cose ospitati i servizi italiani. Arriva lì e dice ‘ragazzi io li ho trovati ma ho bisogno assolutamente di antibiotici’. Invece di dargli gli antibiotici e magari seguirlo, i kenyoti arrestano lo scout…”.

Una decisione ancora una volta inspiegabile, che non farebbe altro che dare un ennesimo vantaggio ai rapitori di Silvia. “Come son scappati la prima volta quando sono stati bloccati riscappano un seconda volta, probabilmente a quel punto trovano rifugio in Somalia”.

Alberizzi sostiene: “Secondo i comunicati ufficiali tra la nostra intelligence e il governo kenyota c’era grandissima collaborazione. Questa cosa mi ha insospettito perché sul campo non li vedevo…”

Massimo racconta di essere andato a Chakama in agosto e di avere chiesto se qualche italiano fosse arrivato lì, ma gli avrebbero detto che era venuto solo il console il giorno dopo il rapimento e più nessun altro. Non sappiamo se sia vera questa circostanza, certo magari la nostra intelligence si stava muovendo cercando di non dare nell’occhio… Qualcosa però succede, perché verso gli inizi di dicembre vengono arrestate 3 persone.

Il primo è Ibrahim Omar, considerato dalle autorità kenyote capo del commando armato che ha rapito la giovane Silvia a Chakama e che viene trovato in un rifugio, riconducibile ai terroristi di Al Shabaab, assieme a parecchie munizioni e a un kalashnikov. 

“Un altro è noto per essere il bracconiere della zona e quindi era già stato arrestato più volte”, spiega ancora il giornalista italiano. “Il terzo era un poveraccio che viene arruolato come manovalanza e non ha voce in capitolo”.

Di Silvia però neppure l'ombra e tra gli investigatori kenyoti si fa sempre più insistente il pensiero che alla fine la ragazza sia stata ceduta davvero ai terroristi somali che stanno per attraversare il confine verso il loro paese. A questo punto succede l’ennesimo colpo di scena, che riguarda un aspetto della storia che non è mai stato chiarito fino in fondo. Emerge da un documento esclusivo degli inquirenti kenioti, che Massimo pubblica sul suo sito e che recita: “rapimento al fine di richiedere un riscatto all’ambasciata italiana per riscatto chiesti all’ambasciata italiana come unica condizione per il rilascio”.

Una circostanza che dopo la liberazione della ragazza, verrà smentita a gran voce dall’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che dice: “È legittimo farsi domande, a me non risultano riscatti altrimenti dovrei dirlo”.

La cosa certa però è che dopo gli arresti dei 3 rapitori il riserbo che cala sulla questione Silvia Romano diventa assordante. Nessuno parla più, né dal Kenya né tanto meno dall’Italia. Gli unici aggiornamenti infatti arrivano proprio dai pochissimi giornalisti italiani che sono sul posto e che seguono udienza dopo udienza il processo che si apre nei confronti dei 3 arrestati. Un processo dal quale saltavano fuori altre stranezze, perché per esempio dopo le prime udienze, come ci dice Massimo, “i signori vengono rilasciati su cauzione… il poveraccio non ha i soldi quindi resta in galera”.

A essere liberati su cauzione sono Moses Chende, che versa la cifra molto alta, almeno in Kenya, di 25 mila euro, e Ibrahim Omar il più pericoloso della banda, quello trovato con munizioni e kalashnikov, per il quale la cauzione viene pagata misteriosamente. Pagata, come spiega ancora Alberizzi, “da un sarto che guadagna due lire…”.

È infatti una circostanza incredibile se pensiamo che lo stipendio medio in quelle zone del Kenya è di circa 70 euro al mese. Nonostante questo, un perfetto sconosciuto che sostiene essere amico del rapitore mette in pegno la bellezza di 26 mila euro per farlo uscire di galera….

“E l’uomo dopo essere stato scarcerato scompare”, aggiunge il giornalista italiano.

Il processo, seppur senza uno degli indagati più importanti continua, i due rapitori che non sono fuggiti collaborano ma poco tempo dopo accade che sia la procuratrice che un capo della polizia vengono trasferiti.. “A pensare male si va all’inferno ma ci si azzecca”, dice ancora Alberizzi. 

Insomma, l’impressione è che qualcosa, soprattutto nei primi mesi sia andato come non doveva, troppe sono le coincidenze e altrettanti i misteri che, a oggi, restano tali e quali. 

Il resto della storia lo conosciamo tutti: la ragazza viene liberata grazie a un'operazione congiunta tra i nostri servizi segreti e le forze speciali turche che la recuperano in un villaggio a pochi km da Mogadiscio e il 10 maggio del 2020 Silva tocca il suolo italiano dove può finalmente riabbracciare la sua famiglia.

Da quel giorno di questa storia se n’è parlato pochissimo e nessuno ha veramente capito come siano andate le cose. Noi però una strada potremmo averla trovata. 

E se lo stop alle ricerche fosse arrivato direttamente dall’Italia? Massimo trova questa ipotesi possibile e allora gli chiediamo di riconoscere delle persone in una fotografia e il giornalista, visibilmente turbato, dice: “Ragazzi se questa cosa è vera è una bomba”…

Che cosa abbiamo scoperto? Ve lo racconteremo nel corso della prossima puntata di questa nostra inchiesta sui troppi misteri nel rapimento della cooperante italiana Silvia Romano.

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