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Vannini, la lettera del figlio di Ciontoli: “Mi fidavo di mio padre, nonostante avessimo idee diverse” | VIDEO

Federico Ciontoli ricostruisce la sera della morte di Marco Vannini. Lo fa con una dichiarazione spontanea durante la prima udienza del processo d’appello bis. Parla dei rapporti con il padre Antonio Ciontoli e descrive alcuni particolari dopo lo sparo come la chiamata al 118 e l’attesa dell’ambulanza

Federico Ciontoli rompe il silenzio di tutti questi anni e racconta la sua versione su quella sera in cui è morto Marco Vannini. Lo fa leggendo per oltre un quarto d’ora una lunga lettera durante la prima udienza del processo d’appello bis: “Vorrei che qualcuno potesse ascoltarmi e conoscermi come persona”, premette il figlio di Antonio Ciontoli. Per la ricostruzione processuale è stato suo padre a sparare al ragazzo e per questo è stato condannato in Appello a 5 anni per omicidio colposo, sentenza che però è stata annullata con rinvio dalla Cassazione. In Appello era stata confermata la condanna a 3 anni per omicidio colposo per la moglie Maria Pezzillo e i due figli Federico e Martina (fidanzata di Marco). 

“La prima cosa che mi è interessata quella sera è che qualcuno che sapeva cosa fare potesse intervenire visto che anche se mio padre diceva di poterci pensare lui a me per un po’ non sembrò che fosse così”, dice Federico prima di fornire la sua ricostruzione di una parte dei quei 110 minuti tra lo sparo e l’arrivo in ospedale. Minuti preziosi in cui per la Cassazione, Marco si sarebbe potuto salvare. “Non c’era niente che mi spinse a non credere a quello che mio padre chiamò un colpo d’aria”, in questi istanti Federico sostiene di credere alla versione dello “scherzo”, come raccontato poi al telefono ai soccorritori dal padre Antonio. Tanto che il figlio gli crede perché “si comportava proprio come se stesse gestendo uno spavento ossia alzando le gambe e rassicurando”. 

I minuti però passano e Marco non accenna a migliorare come ricostruisce Federico: “Iniziai a preoccuparmi dopo un po’ perché non ero in grado di gestire una situazione che non avevo mai vissuto. Chiesi a mio padre se fosse qualcosa che a lui era già capitato...”. A questo punto il ragazzo capisce che la situazione non accenna a migliorare. “Di mia iniziativa ho preso il telefono, scesi di casa e chiamai il 118. Cercai di convincere mio padre a chiamare anche se lui pensava non servisse”. Nella sua lettera riferisce anche alcuni particolari come gli orari. “Siamo venuti a sapere che la chiamata è avvenuta alle 23.41 posso dire con certezza che mi sono alzato dal letto non più di 10 minuti prima per capire che cosa fosse quel rumore”. 

Federico allerta il 118 ma dall’altra parte sembrano non credergli. “Quando passai il telefono a mia madre, le dissi che non mi credevano e quindi non potevo che essere d'accordo con l'annullamento della chiamata che è avvenuto poco dopo”, sostiene il ragazzo. “Se avessi voluto nascondere qualcosa, sarebbe stato stupido rivolgermi a mia madre. A me interessava solo che l'ambulanza arrivasse il prima possibile”. I minuti passano e secondo Federico, Marco sembra avere un lieve miglioramento: “Questa cosa mi convinse ulteriormente che si trattava solo di un forte spavento. La situazione poi peggiorò di nuovo e Marco iniziò a lamentarsi di più. Questa situazione mi portò a insistere sulla necessità di chiamare i soccorsi”. 

A questo punto nella sua lettura, Federico rivela un particolare: “Mi fidavo di mio padre, nonostante i rapporti con la famiglia fossero buoni, avevamo spesso idee diverse anche nelle piccole cose, soprattutto per il suo carattere”. Federico inizia a dubitare che Marco non fosse in preda a uno spavento “perché uno spavento avrebbe avuto un termine”. A questo punto entra in bagno “dove avevo trovato le pistole e trovai il bossolo. Fu il primo momento in cui compariva nella mia testa la possibilità che poteva essere partito un colpo, non prima”. 

All’istante Federico sostiene di averlo comunicato al padre “nella consapevolezza che anche lui fino a quel momento non fosse stato consapevole del fatto che era partito un colpo”, sostiene davanti ai giudici. “Marco era bianco e non respirava bene. Se avessi solo immaginato che era partito un colpo di pistola o che la pistola era rilevante non avrei esitato a dirlo!”. 

Federico sostiene di aver ribadito al padre di chiamare subito l’ambulanza, “lui si convinse e insieme a Viola ci vestimmo per scendere subito in strada”, racconta. È passata quasi un’ora dallo sparo, Ciontoli la chiama ma parla di una caduta su un pettine a punta. A questo punto descrive con molti particolari l’attesa del 118: “Feci su e giù con Viola lungo via Alcide De Gasperi fino all'incrocio con via Flavia perché l'ambulanza sembrava ritardare”, dice Federico. A questo punto descrive minuziosamente alcuni particolari. “Quando arrivò l’ambulanza, mi accorsi che non c'era posto per parcheggiarla perché la macchina di mio padre era davanti al cancello. Così andai a spostare l'auto che avrebbe potuto essere d'intralcio. Girai per un po' di tempo ma essendo domenica sera non c'erano posti dove poter parcheggiarla. Così dopo aver fatto vari giri sia su via Flavia che su via De Gasperi, decisi di lasciare la macchina davanti al passo carrabile”. 

Perché raccontare con tutti questi dettagli l’attesa dell'ambulanza? E soprattutto il giro in auto? Sembra quasi voler fugare ogni dubbio sulla tesi di alcuni vicini di casa. In particolare quella di Maria Cristina Imperato che ha parlato per la prima volta in esclusiva a Le Iene (qui il servizio). “Antonio Ciontoli per 20 anni ha parcheggiato la sua auto davanti al cancello, quella sera non c’era. Stava in mezzo alla strada, era assurdo”, sostiene Maria Cristina nel servizio che vi riproponiamo qui sopra. Nessuno però l’ha mai ascoltata all’epoca e ancora oggi la difesa ha chiesto di non ammetterla in aula. Verrà invece ammessa Viola Giorgini, l’unica dei presenti in casa quella sera che è stata assolta. 

“Nessuno può tornare a quella sera e pensare a come si sarebbe comportato, nemmeno io. Perché ora tutti sappiamo che mio padre aveva sparato e che il proiettile aveva danneggiato organi vitali e queste sono cose che oggi nessuno può toglierci dalla testa”, dice Federico. 

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