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Arrestato a Parigi l'ex br Di Marzio: è possibile chiudere i conti con gli “anni di piombo”? | VIDEO

L’ex brigatista è stato arrestato a Parigi dove aveva da anni un ristorante italiano. Maurizio Di Marzio era l’ultimo che era riuscito a sfuggire al blitz della primavera scorsa. Proprio allora con Gaetano Pecoraro ci siamo chiesti, partendo anche dalle parole Cossiga, se e come si può voltare pagina dopo uno dei periodi più dolorosi della storia d’Italia

È stato arrestato a Parigi Maurizio Di Marzio, 61 anni, ex brigatista rosso e ultimo che era ancora ricercato dopo il blitz in Francia del 28 aprile scorso di cui vi abbiamo parlato anche noi nel servizio di Gaetano Pecoraro che vedete qui sopra. Il blitz era stato effettuato dalle forze dell’ordine francesi con la collaborazione dell’intelligence italiana e aveva portato alla cattura di nove ex terroristi condannati per reati commessi durante gli anni di piombo. Di Marzio era riuscito finora a fuggire ed era uno dei principali obiettivi dell'operazione.

Le ricerche erano ripartite dopo che l’8 luglio scorso la Corte di Assise di Roma ha stabilito che la sua pena non è prescritta: deve ancora scontare cinque anni e nove mesi di carcere per banda armata, associazione, sequestro di persona e rapina. Nel 1981 Di Marzio partecipò all’attentato contro il dirigente dell’Ufficio provinciale di collocamento di Roma, Enzo Retrosi. L’anno dopo partecipò al tentato sequestro del vicecapo della Digos di Roma, Nicola Simone, che fu colpito da tre pallottole al volto.

Era stato arrestato una prima volta a Parigi nell’agosto 1994. L’Italia presentò la prima domanda di estradizione, valutata favorevolmente dai magistrati. Il governo farncese non ha dato seguito a quella pratica e alle stesse nel 2002, 2007 e 2013. Risale al gennaio 2020 l’ultima richiesta italiana, che ha portato all’operazione dell’aprile scorso. Di Marzio gestiva da decenni un ristorante italiano nella capitale francese.  

Non si era mai arrivati al suo arresto in osservanza della cosiddetta “dottrina Mitterand”, voluta nel 1985 dall’allora presidente francese. Di fatto si prevedeva l’accoglienza in Francia degli ex militanti che avessero rinunciato alla lotta armata. Il blitz e gli arresti annunciati in aprile dallo stesso attuale presidente francese Macron sembrano aver chiuso con quella “dottrina”.

Con Gaetano Pecoraro ci eravamo chiesti, proprio dopo quell’operazione, se e come fosse possibile chiudere davvero con gli anni di piombo. La Iena, come vedete qui sopra, ha parlato anche con Narciso Manenti, uno dei destinatari dei nuovi provvedimenti, condannato all’ergastolo per l’omicidio del carabiniere Giuseppe Gurreri. “Vivo qui dal 1983”, dice. “Ho vissuto più qui che in Italia io. C’è stata una commissione parlamentare che è durata 14 anni che ha scritto tutto, decine di migliaia di pagine. Ne hanno avuti abbastanza in Italia di protagonisti, no? Gliene servono dieci, dieci vecchietti malati?”.

“Cossiga ha definito quel periodo ‘guerra civile di bassa intensità'”, prosegue Manenti. L’ex presidente della Repubblica, ministro dell’Interno al tempo dell’uccisione di Aldo Moro, arrivò a sostenere che i giovani che combattevano quella specie di guerra civile lottavano “non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”.

E non disse solo questo, come potete riascoltare nel servizio di Gaetano Pecoraro. C’è un punto fondamentale da risolvere per chiudere definitivamente i conti con gli “anni di piombo”: tutte quelle persone che presero le armi per uccidere o essere uccise erano solo criminali da rinchiudere nelle patrie galere o, come diceva Cossiga, in qualche modo figli della Resistenza che sentivano essere stata tradita?

“Ogni guerra civile è seguita da un’amnistia qualche anno dopo”, sostiene Manenti. Il riferimento è in particolare a quello che accadde dopo la Seconda guerra mondiale, quando nel 1946 Palmiro Togliatti, leader del Partito comunista e all’epoca ministro della Giustizia, varò un’amnistia che finì per graziare migliaia di ex fascisti per riappacificare il Paese. 

Marina Petrella, giudicata responsabile di diversi sequestri e omicidi per cui è stata condannata all’ergastolo in Italia, ci ha detto: “Esprimo il mio profondo dolore, ma non sono in grado di sostenere un’intervista”. Un tema che gli ex brigatisti sono sempre stati restii ad affrontare pubblicamente. Come la pensa Manenti? “Ha ragione. Lasciamoli tranquilli, altrimenti le ferite si riaprono. Ogni 10 anni, ogni 5 anni…. basta”. Una risposta simile l’avevamo avuta anche da Alvaro Lojacono, l’ex brigatista che avevamo incontrato due anni fa.

Oltre alla dimensione privata del pentimento e del dolore per le vittime, c’era un’altra cosa che vi aveva detto Lojacono: “Non c’è mai stato niente di personale con nessuna delle vittime. Era simbolico e funzionale: hai quella posizione lì dentro una struttura gerarchica, per esempio che comanda le carceri speciali, c’era la convinzione - terribile quanto ti pare - che eliminandolo mettevi in crisi il sistema. Sarà truce e drammatico, ma quella era la dimensione”.

Una dimensione che i familiari delle vittime di quegli anni ovviamente non potranno mai accettare e nemmeno i tribunali che decidono le pene, ma il cui riconoscimento è al centro del dibattito di cui abbiamo parlato prima. Queste persone sono solo delinquenti come un rapinatore che uccide per rubare dei soldi, o sono qualcosa di diverso? E se sono qualcosa di diverso, come devono essere trattati?

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