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Coronavirus, lo studio italiano pubblicato su Nature: maggior impatto nelle zone inquinate | VIDEO

Dallo studio, pubblicato su Nature Scientific Reports, emerge una forte correlazione tra, da un lato, una maggiore mortalità per Covid-19 e l’impatto del virus sulle terapie intensive e, dall’altro, l'inquinamento ambientale, la mobilità, la densità abitativa, la densità ospedaliera, la temperatura invernale e l'anzianità della popolazione

Esisterebbe una forte correlazione tra una maggiore mortalità per Covid-19 e l’impatto del virus sulle terapie intensive, da un lato,  e l'inquinamento ambientale, la mobilità, la densità abitativa, la densità ospedaliera, la temperatura invernale e l'anzianità della popolazione, dall'altro.

È quanto emerge dallo studio 'A novel methodology for epidemic risk assessment of Covid-19 outbreak' pubblicato su Nature Scientific Reports. Lo studio, realizzato da un team dell’Università di Catania, prende in considerazione diversi fattori per stimare il rischio a priori dell’impatto del coronavirus sulle diverse regioni italiane.

Come si legge sull’Ansa, i ricercatori spiegano che “le regioni sono state classificate in quattro diversi gruppi di rischio (molto alto, alto, medio e basso) e la graduatoria predice molto bene quello che è avvenuto realmente durante la prima e la seconda ondata di contagi. La differenza fra le regioni giustifica pure le diverse misure di contenimento che andrebbero quindi correttamente differenziate non soltanto in base al numero corrente dei casi di infezione, ma anche in base al rischio a priori".

A marzo scorso, con Giulia Innocenzi, avevamo intervistato il professor Alessandro Miani, presidente della Società italiana di medicina ambientale, proprio a proposito della possibile correlazione fra inquinamento e diffusione del coronavirus. “Un legame c’è”, ci aveva detto il professor Miani. “L’Italia è il paese con il numero di morti da inquinamento atmosferico superiore in Europa. Siamo a 75mila decessi all’anno causati dall’inquinamento atmosferico. Questo significa che le popolazioni residenti nelle regioni che hanno un maggiore tasso di inquinamento sono sicuramente più fragili, più esposte a una serie di patologie sia acute che croniche. Quindi hanno una comorbidità che nel caso di una infezione virale le rende più soggette al rischio di avere complicanze gravi o decessi”.

Anche la ricerca “Beyond virology: environmental constraints of the first wave of Covid-19 cases in Italy", pubblicata sulla rivista scientifica “Environmental Science and Pollution Research”, ha fatto emergere l'influenza che il surriscaldamento globale e l'inquinamento atmosferico avrebbero sulla trasmissione e la sopravvivenza del Covid-19. Lo studio, guidato da Christian Mulder, titolare della cattedra di Ecologia dell'università di Catania, ha studiato l’andamento spazio-temporale della prima ondata di coronavirus in 82 centri urbani d’Italia.

"La prima ondata della pandemia ha evidenziato drammaticamente i ruoli chiave del clima e della chimica dell'aria nelle epidemie virali”, ha detto il professor Mulder. “E in Italia i primi focolai rispecchiano l'industrializzazione del nostro Paese”.

Questi studi ci ricordano ancora una volta che l’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico sono un’emergenza non più rimandabile. 

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