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Uranio impoverito, il colonnello Carlo Calcagni: “Voglio le scuse dello Stato” | VIDEO

Il colonnello Carlo Calcagni è rimasto intossicato dall’uranio impoverito durante la missione di pace del 1996 in Bosnia. Non tutti i militari mandati nei Balcani sarebbero stati informati dai vertici di allora sulle precauzioni necessarie per proteggersi. Calcagni, che soffre di patologie croniche degenerative e irreversibili, chiede al ministero della Difesa un risarcimento di un solo euro, simbolico, unito però a delle scuse pubbliche

“Siamo nel 2021 e ancora della parola ‘uranio’ non si deve parlare”. A raccontarlo a Luigi Pelazza è il colonnello Carlo Calcagni, ex pilota dell’Esercito e atleta paralimpico. Il problema di cui parla è quello dell’uranio impoverito, un metallo pesante tossico e cancerogeno che ha fatto ammalare soldati italiani.

“I valori che ho io sono addirittura superiori ai valori delle persone che sono state esposte a Chernobyl”, dice il colonnello Calcagni alla Iena. Il militare nel 1996 fu inviato in missione di pace in Bosnia. In quelle operazioni l’esercito americano utilizzò proiettili e bombe all’uranio impoverito, informando anche gli alleati delle precauzioni necessarie in quel contesto.

Non tutti i militari mandati nei Balcani sarebbero però stati informati dai vertici di allora: 7mila si sono ammalati, circa 400 sono morti di cancro. Calcagni in quelle operazioni era pilota di elicotteri, e per il suo lavoro in quella missione riceve anche un encomio. Tornato a casa però il colonnello si ammala: “Viene riscontrata la presenza di metalli pesanti nelle biopsie di fegato, midollo e polmoni. Da lì la situazione è degenerata”.

Il colonnello Carlo Calcagni inizia le cure e parallelamente invia la documentazione agli organi competenti per farsi riconoscere la “causa di servizio”, ovvero dimostrare che si è ammalato in Bosnia in seguito alla contaminazione da uranio. Calcagni racconta a Luigi Pelazza tutte le terapie a cui è costretto a sottoporsi per sopravvivere, come potete vedere nel servizio qui sopra.

Nel 2007 il ministero della Difesa ha decretato che le sue infermità sono riconosciute dipendenti da fatti di servizio “per le particolari condizioni ambientali e operative della missione svolta nei Balcani”, ci spiega Calcagni. E gli hanno riconosciuto un’indennità e una pensione di invalidità al 100%.

“Subito dopo ho fatto una richiesta per chiedere un risarcimento vero e proprio”, come la legge gli permette. Ma nessuno gli risponde: “Passano gli anni, io nel frattempo devo anche affrontare situazioni gravi, come la necessità di trapianto al midollo, un intervento ai polmoni…”. Poi finalmente nel 2017, ben dieci anni dopo, riceve il responso: “Due righe di risposta, ‘la sua domanda di risarcimento non può trovare accoglimento’”.

Così Calcagni fa richiesta di accesso agli atti ma il ministero della Difesa si oppone: “Dice che c’è un segreto di Stato sulla mia documentazione”. Lui non molla e fa ricorso al Tar, che gli dà ragione. Siamo nel 2019 e dopo 12 anni scopre che il risarcimento gli è stato negato perché “Calcagni non ha effettuato alcuna attività di volo nei Balcani”.

“È assurdo, ti ammazzano due volte e non è accettabile”, dice Calcagni a Luigi Pelazza. Per avere prova del contrario di quanto afferma lo Stato, basta vedere il suo libretto dei voli con l’elenco di tutte le operazioni svolte oppure il suo fascicolo sanitario. A questo punto il colonnello scrive ancora una volta al ministero, mettendoli di fronte alle menzogne. Dopo un’attenta lettura delle carte, nel 2019 l’Esercito fa mea culpa: “Io ricevo questa dichiarazione e faccio un sospiro di sollievo”. E invece no. Di anni ne sono passati altri due, e nessuno si è ancora fatto sentire: “Si perde tempo, probabilmente il militare muore…”.

Carlo Calcagni è un uomo dello Stato, un militare: la battaglia che sta portando avanti la sta facendo anche per tutti i ragazzi che in questi 15 anni si sono ammalati e sono morti per colpa dell’uranio impoverito. Come risarcimento chiede un euro simbolico, ma vuole soprattutto “le scuse pubbliche nei miei confronti e nei confronti delle nostre famiglie e degli altri militari che hanno subito quello che ho subito io in questi anni”.

“Uno Stato che mente a se stesso è una vergogna”, commenta l’ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta. È stata proprio lei a tirare fuori le carte che hanno dato ragione al colonnello Calcagni. “Penso che a un certo punto un paese debba fare pace con i propri errori, o mandi tutti in galera oppure dici ‘abbiamo sbagliato’, ma bisogna fare in modo che chi si è ammalato e continua ad ammalarsi venga tutelato. È chiaro che un militare rischi la vita, ma non deve farlo per un rischio che io conosco e non ti dico”.

Non ci resta che andare a parlare con gli attuali vertici della Difesa. Ci riceve il sottosegretario Giorgio Mulè, a cui facciamo una domanda diretta: perché sono passati quindici anni? “Perché si è fatto i conti con la vergogna di dichiarare quanto successo”, ci risponde. “Alla luce della responsabilità e dei documenti emersi, adesso un giudice dovrà decidere sul risarcimento”.

Calcagni chiede un euro simbolico e le scuse pubbliche: “Nel momento in cui si riconosce che non è stato detto tutto ed è stato nascosto qualcosa, è un atto con cui lo Stato chiede scusa”, ci dice il sottosegretario. “Sarebbe facile oggi cavarsela dicendo: ‘ho sbagliato, tieni un euro’. Secondo me le cose vanno fatte come è giusto farle, cioè con il riconoscimento da parte di un’autorità che dice ‘hai sbagliato ed è giusto che paghi’. Il colonnello Carlo Calcagni è una persona verso cui il ministero della Difesa deve avere la massima attenzione, questa porta è aperta e il mio telefono a disposizione: lo sentirò per sentire cosa posso fare materialmente per agevolarlo nei prossimi passi”.

“Io mi devo curare ogni giorno della mia vita”, chiude il colonnello Calcagni. “Io lotto, lotto come un leone, con tutte le mie forze, anche quando non ce l’ho”.

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