Stasera lo Speciale Le Iene sul delitto di Garlasco: la verità di Alberto Stasi
"Delitto di Garlasco: la verità di Alberto Stasi": in prima serata su Italia1, lo Speciale Le Iene con Alessandro De Giuseppe, scritto da Riccardo Festinese. In esclusiva e per la prima volta in una trasmissione televisiva, a distanza di sette anni dalla sua condanna definitiva per l'omicidio nel 2007 a Garlasco (Pavia) della fidanzata Chiara Poggi, il 38enne rompe il silenzio con una lunga intervista in carcere su uno dei casi di cronaca nera più dibattuti della storia d'Italia
Alberto Stasi parla in esclusiva e per la prima volta in una trasmissione televisiva, a distanza di sette anni dalla sua condanna definitiva per omicidio, nello Speciale de Le Iene “Delitto di Garlasco: la verità di Alberto Stasi” in onda oggi, 24 maggio, in prima serata su Italia 1.
Il 13 agosto 2007 una ragazza di 26 anni, Chiara Poggi, viene trovata morta nella villetta della sua famiglia in un piccolo e tranquillissimo paese in provincia di Pavia, Garlasco, proprio dal fidanzato Alberto Stasi che viene da subito iscritto nel registro degli indagati. Nel 2015, a otto anni dal delitto (uno dei casi di cronaca nera più discussi della storia del nostro Paese) e dopo essere stato riconosciuto innocente per due volte, al quinto grado di giudizio Stasi viene condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per averla assassinata brutalmente.
“Perché ho deciso di parlare oggi? Per dare un senso a questa esperienza, perché certe cose non dovrebbero più accadere. Se una persona vive delle esperienze come quella che ho vissuto io questa deve essere resa pubblica, a disposizione di tutti, e visto che ho la possibilità di parlare lo faccio, così che le persone capiscano, possano riflettere e anche decidere, voglio dire, se il sistema che c’è va bene oppure se è opportuno cambiare qualche cosa.”.
Dal carcere di Bollate dove sta scontando la sua pena, Stasi rompe dunque il silenzio con Alessandro De Giuseppe e Riccardo Festinese per raccontare come, secondo lui, sarebbero andate le cose in uno Speciale che rappresenta anche un documento unico e assolutamente inedito. Una lunga intervista in cui il trentottenne (aveva 24 anni all’epoca del delitto) si lascia andare parlando di Chiara, dei suoi genitori, dei magistrati, delle perizie, degli arresti che ha subito e dei processi, anche mediatici, approfondendo quelle che lui ritiene siano state storture, forzature ed errori che avrebbero portato alla sua condanna. Ancora oggi, infatti, e, come sempre, Alberto Stasi si dichiara innocente.
Nello Speciale ripercorre quella che, secondo la sua ricostruzione, sembra una vicenda tutt’altro che chiara e lineare: un processo che appare senza un movente e senza una prova, basato sull’interpretazione di una serie di indizi che hanno potuto portare prima a due assoluzioni e poi a una condanna definitiva. “Sembrava di remare contro un fiume in piena andando controcorrente, fin dall’inizio”, dice Stasi. “Una volta lo scambio dei pedali, un’altra volta il test solo presuntivo, e l’alibi che mi viene cancellato, l’orario della morte che viene spostato. Non c’era desiderio di cercare la verità perché una volta può accadere, la seconda volta può passare, ma non possono esserci una terza, una quarta, una quinta, per sette anni. Che verità c’è in tutto questo?”. “Io sono stato assolto in primo grado, sono stato assolto in Appello, sull’unica condanna il procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha chiaramente detto ‘Non si può condannare Alberto Stasi’. Quindi, in Italia c’è un sistema che a oggi funziona così: la pubblica accusa dice ‘No, questa persona va assolta’ ma, nonostante questo, la persona viene condannata”.
Tra le prime domande di Alessandro De Giuseppe c’è naturalmente quella del se sia stato lui a uccidere l’allora fidanzata. “Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando”, risponde Stasi. “Nell’immaginario comune un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all’ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera, quando mi corico, io non ho nulla da rimproverarmi. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l’hai subita e basta, non è colpa tua”.
Il racconto torna al suo primo interrogatorio e al suo primo arresto: “Ero spaventato ma anche abbastanza sereno, quella tranquillità di chi ha la convinzione di potere chiarire le cose. In quella notte l’accertamento era preliminare, puoi anche aspettare quello definitivo, perché hai fretta di portare in carcere una persona sulla base di un risultato ancora parziale? Non c’era motivo ma il meccanismo si era messo in moto: era stato emesso un provvedimento, i carabinieri erano arrivati, i giornalisti erano già fuori dalla caserma, mandare tutti a casa, in qualche modo, credo dispiacesse, e quindi venni accompagnato in carcere”.
Della sua prima notte in carcere ricorda lo smarrimento ma anche la “premura” del direttore del carcere di Vigevano: “Quando fui scarcerato dopo quattro giorni, con un’ordinanza del giudice che smontava punto per punto quel provvedimento assurdo, il direttore mi disse ‘Arrivederci fuori, spero che vada a dire in giro che l’abbiamo trattata bene’. È come se in quel momento la cosa più importante fosse solo avere il proprio ruolo a posto, non il fatto che una persona di 24 anni veniva portata in carcere. Lui era, in qualche modo, custode della mia persona però l’interesse doveva essere forse tutt’altro, non questo”.
Stasi è convinto che quell’episodio abbia segnato in maniera irreversibile tutta la vicenda processuale successiva e che abbia gettato nell’immaginario collettivo e, secondo lui forse anche in parte della magistratura, il seme della sua colpevolezza, individuando esclusivamente in lui la persona su cui concentrare tutte le indagini: “Credo che questo episodio abbia comunque segnato tutto il seguito della vicenda processuale perché devi immaginarti il terremoto: la procura di Vigevano aveva portato in carcere davanti a tutta Italia un ragazzo di 24 anni e adesso doveva spiegare il perché aveva sbagliato, e con loro anche i Ris di Parma, che avevano indotto il pubblico ministero a portare in carcere una persona sulla base di una relazione che era sbagliata”.
Parla poi delle indagini: “Sono passati 15 anni ma in quegli anni i Ris di Parma era un po' mitizzati. La sera la gente guardava la televisione e li vedeva risolvere i delitti più complicati nel tempo di un episodio. Scoprire che in realtà le persone venivano portate in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola, illuminava una situazione che si pensava diversa. Ecco perché dico che quel momento fu come un punto di non ritorno: non si trattava più di svolgere un’indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze, di inezie, di incapacità di tornare indietro, non so se mi spiego. Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio, carattere. Il pm non è mai andato a dire ‘Questo provvedimento era prematuro’, perché poi l’accertamento definitivo risultava, appunto, negativo”.
Alessandro De Giuseppe gli chiede se ha già progetti per quando uscirà dal carcere: “Oggi ho 38 anni e ho in mente di mettere a frutto tutte le esperienze negative che ho vissuto, un bagaglio conoscitivo che non può essere acquisito diversamente. Certe cose non le puoi metabolizzare se non le vivi. Se hai la fortuna, o sfortuna a seconda del punto di vista, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni e volevo fare carriera nell’azienda più grande d’Italia, tanto per fare un esempio.”
“Cosa vorrei dire ai giudici che mi hanno condannato? Non saprei perché sono, in qualche modo, e in negativo, i protagonisti di questa vicenda. È difficile arrivare alla mente e al cuore di quelle persone. Il loro non è un mestiere banale, ha conseguenze sulla vita delle persone, come un medico in sala operatoria: ci sono lavori che non comportano queste responsabilità, altri invece sì. Se si decide di intraprendere un certo lavoro, una certa carriera, deve essere fatto in modo coscienzioso perché poi anche lì entrano dinamiche normali, di lavoro. La carriera, l’ambizione, il posto in un'altra sede, tutte cose che non dovrebbero avere nulla a che fare con la giustizia”.
Un ringraziamento speciale va a Luigi Grimaldi che in questi anni ha lavorato intensamente affinché si arrivasse alla realizzazione di questo Speciale.