“L’ultimo ricordo che ho di lei è di averle aggiustato i capelli”. Angela vive con il ricordo della sua migliore amica, Serena, morta 22 anni fa quando erano ancora due bambine in una delle grandi stragi dimenticate della nostra storia, la tragedia di Secondigliano, quartiere alla periferia di Napoli.
Il 23 gennaio 1996, in un’area tra i palazzi dove erano in corso i lavori per una galleria sotterranea, intorno alle 18 scoppia un’esplosione che provoca 11 morti. I familiari di queste vittime non solo non hanno ancora avuto giustizia, ma oggi lo Stato sta chiedendo indietro a queste famiglie centinaia di migliaia di euro.
Dopo alcuni giorni dalla tragedia comincia a farsi strada l’ipotesi che la causa sia stato il cedimento sotterraneo causato dai lavori di scavo della galleria sottostante. Un incidente che poteva essere evitato se qualcuno avesse ascoltato le segnalazioni su crepe e disagi causati dai lavori.
Dopo la tragedia il Cipe, l’ente statale che aveva concesso i lavori, aveva versato 100mila euro a ogni famiglia come anticipo del risarcimento. Ma tre anni dopo il Cipe viene assolto e invia ai familiari una lettera in cui intima la restituzione delle somme percepite con gli interessi e costituisce gli interessati in mora, cioè debitori in ritardo con i pagamenti.
Alcuni mesi fa lo Stato si è rifatto vivo con una lettera che richiede l’acconto di 100mila euro più gli interessi maturati in 10 anni. Roberta Rei è andata a chiedere spiegazioni di questa richiesta e a parlare con i familiari delle vittime.
“Perché non fai una cosa e mi ridai mio padre?”, dice uno dei familiari. “Io non ce li ho questi soldi”, “per questo disastro non ha pagato nessuno”, dicono i familiari delle vittime.
La Iena è andata dal firmatario della lettera, Carlo Schilardi, commissario straordinario del Cipe. “Lo Stato fa le sue leggi e tu le devi applicare”, è stata la risposta. Ma qualche giorno il nostro intervento Schilardi ci ricontatta, stavolta con una bella notizia. “Sono riuscito a fare rapporto alla presidenza del Consiglio. Finché non si risolve la cosa, noi non agiamo in esecuzione”. Almeno per ora, possiamo stracciare quella lettera.