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Quando anche l'antimafia distrugge vite e aziende | VIDEO

Vi abbiamo parlato più volte delle possibili distorsioni delle misure di prevenzioni antimafia. Con Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli affrontiamo il paradosso giudiziario che ha distrutto due generazioni della famiglia Cavallotti e i negozi dei fratelli Niceta

Anche l’antimafia distrugge vite? Torniamo a parlare con Pietro Cavallotti, una nostra vecchia conoscenza di un nostro servizio, quando assisteva allo sfogo di suo zio Vincenzo: “Mi hanno rovinato la vita. A me e ai miei figli. Mi hanno rovinato perché ho un lavoro. Per quale motivo mi chiedo io? Noi non abbiamo mai avuto rapporti con la mafia. Noi siamo vittime delle mafia, degli amministratori, della malagiustizia”.

Oggi aggiungiamo con Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli un altro tassello al paradosso giudiziario che ruota intorno a questa famiglia da oltre 25 anni e che è la migliore dimostrazione di come una legislazione sacrosanta, pensata per combattere la mafia, possa fallire.

Tutto inizia negli anni ’90 quando l’azienda creata dalla famiglia Cavallotti va a gonfie vele. Con oltre 300 operai e un fatturato di 20 miliardi di lire, la Comest srl si occupa della costruzione e manutenzione di impianti a metano. Proprio quando tutto sembra vada alla grande, i tre imprenditori Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti vengono arrestati. “Avevo 18 anni quando sono venuti verso le tre di notte con le pistole dentro la casa”, dice uno dei figli.

Le accuse nel 10 novembre 1998 sono concorso in associazione mafiosa e turbativa d’asta, insomma: fare affari con Cosa Nostra. Tanto che un anno dopo si muove anche la sezione di prevenzione antimafia del Tribunale di Palermo. L’azienda viene sequestrata e affidata a un amministratore giudiziario, una sorta di manager che dovrebbe gestire nella maniera migliore possibile il patrimonio sequestrato fino alla chiusura del processo.

Il processo penale si conclude dopo 12 anni con l’assoluzione definitiva dei tre: “Non risulta l’appartenenza organica di Cavallotti Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito all’associazione mafiosa Cosa Nostra”. 

Il secondo processo è quello delle misure di prevenzione antimafia che procede con esiti completamente differenti. Il calvario di questa famiglia dura per 16 anni. E per tutti questi anni le loro aziende sono sotto nelle mani dello Stato e con il tempo si riducono a un cumulo di carcasse e macerie. La svolta definitiva è nel 2015 quando la sezione misure di prevenzione decide di confiscare definitivamente l’azienda.

La storia non finisce qua. Nel 2006 i figli della famiglia Cavallotti, Pietro, Margherita, Giuseppe e tre ragazzi di nome Vito, si rimboccano le maniche e decidono di costituire una società che si occupa di quello che in famiglia sanno fare meglio: manutenzione delle reti di distribuzione di gas metano, fino ad arrivare a 1,7 milione euro di capitale.

Il destino sembra ripetersi anche nel caso dei figli. Il 23 dicembre 2011 arriva il sequestro emesso sempre dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta da Silvana Saguto, di cui vi abbiamo parlato in un altro servizio di Matteo Viviani. Radiata dalla magistratura, Silvana Saguto è sotto processo proprio per la gestione dei beni sequestrati con 79 capi d’accusa.

A prendere in mano la società dei Cavallotti junior è l’avvocato Andrea Aiello, nominato dal Tribunale. “Andava benissimo, era in piena crescita, con 150 dipendenti”, dicono i ragazzi. Ne parliamo con Vincenzo Paturzo, curatore fallimentare del Tribunale di Milano specializzato in analisi di bilancio: “Ce ne fossero di aziende così…”. Poi arriva l’amministrazione giudiziaria: “In 24 mesi l’azienda ha avuto una perdita di 6 milioni”.

Un dipendente parla di condizioni pietose dei loro alloggi in quel periodo: “Eravamo senza luce, siamo finiti all’ospedale… insomma degli schiavi”. Un altro parla della mancanza di cibo e di condizioni disumane. Alcuni sarebbero finiti in piena disperazione perché non riuscivano a mandare i figli a scuola per la mancanza dei pagamenti. Anche molti fornitori non sarebbero stati pagati.

“In un anno ho ricevuto 1.100 euro” dice un dipendente, un altro aspetta ancora “circa 20mila euro di stipendio”, uno si è addirittura tagliato le vene per protesta. E sono solo alcuni esempi. L’amministratore giudiziario Andrea Aiello contesta però la ricostruzione. Di fatto l’azienda però va in liquidazione.  Secondo Vincenzo Paturzo, il 31 dicembre 2012 l’azienda “è in situazione fallimentare”.

Secondo i bilanci depositati, nel 2017 risultano 9 e 700 mila euro di debiti. I figli dei Cavallotti presentano un esposto. Il pubblico ministero che avrebbe dovuto indagare sui presunti reati commessi da Andrea Aiello durante l’amministrazione giudiziaria dell’azienda dei Cavallotti junior è però lo stesso che rappresentava anche l’accusa nei loro confronti.

La Guardia di Finanza individua dei possibili reati fallimentari di Aiello. Il pm chiede lo stesso l’archiviazione, ma il gip non ci sta e dà 90 giorni al pm per svolgere le indagini chieste dai Cavallotti. Finalmente dopo 8 anni di processo, quest’anno il Tribunale dissequestra la società: “La mafia non c’entra”.

“Prima fatturavano quasi un milione di euro al mese”, ci racconta Pietro Cavallotti. Oggi sono rimasti oltre 8 milioni di euro di debiti da pagare. E le immagini delle condizioni dell’azienda dopo che è stata dissequestrata, come vedete nel servizio qui sopra, purtroppo parlano da sole.

Quello dei Cavallotti non è purtroppo l’unico caso: i fratelli Massimo, Piero e Olimpia Niceta avevano uno dei più grandi negozi di Palermo della catena che per 100 anni ha rappresentato un punto di riferimento per la moda italiana. Anche questo lo troviamo oggi in condizioni disastrose.

“Eravamo arrivati a 25 milioni di euro all’anno e avevamo 100 dipendenti”, dice uno dei fratelli. Chi sarebbe stato a distruggere tutto? Lo Stato.

Il sospetto degli inquirenti nel 2009 era che i fratelli fossero prestanome per uno dei loro negozi di alcuni parenti del superboss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denar,. L’ipotesi crolla e tutto viene archiviato nel giro di un anno e mezzo senza nemmeno andare a processo.

La sorpresa, come nel caso di Cavallotti, arriva dalle misure di prevenzione: due e pure diverse! Una dal Tribunale di Trapani che decide di sequestrare il punto vendita, l’altra dalla sezione di Palermo, presieduta sempre da Silvana Saguto, che decide di sequestrare addirittura l’intero patrimonio dei Niceta. Perché “i Niceta sono da sempre legati alla mafia”. La misura si basa però sugli elementi dell’avviso di garanzia di un’indagine che è già stata archiviata.

Da un giorno all’altro, i tre fratelli perdono tutto. Cosa porta la successiva amministrazione giudiziaria di 5 anni? “Una parte della merce è stata venduta nel fallimento, il resto l’hanno abbandonata nel negozio”, dice uno dei soci. “Ti leva da un momento all’altro tutto quello che hai e che sei. Ti lascia sostanzialmente in mutande. Ti chiedono le carte di credito, soldi che hai in tasca, tutto”.

A prendere in mano l’amministrazione giudiziaria del patrimonio dei Liceta è l’avvocato Aulo Gigante, oggi a processo con l’accusa di corruzione assieme a Silvana Saguto.

“Di un patrimonio di 50 milioni di euro sono rimasti solo 4-5 milioni di debiti tra affitti, contributi, tasse, fornitori non pagati”. In questo caso le aziende sono già fallite prima del processo. “È importante che lo Stato raccolga le nostre storie non perché ci vogliamo lamentare, ma perché vogliamo rappresentare ciò che succede all’ombra di una misura di prevenzione”. 

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