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Daniel, drogato di videogiochi: gli risponde Marco, uscito dal tunnel

“Quindici ore al giorno davanti al pc, anche per colpa dei miei genitori”. Marco adesso si rivolge alla mamma di Daniel,  per dirle che da questo incubo si può uscire. Ecco come ha fatto lui

Vi abbiamo raccontato qualche giorno fa l’incubo di dipendenza nel quale è precipitato Daniel, un ragazzo di 33 anni schiavo dei videogiochi. Una dipendenza che probabilmente viene da lontano, da questioni familiari non risolte, come ci ha raccontato la stessa mamma del ragazzo in una lettera. Dopo la pubblicazione delle toccanti parole di questa madre, ci avete scritto in tantissimi, soprattutto per cercare di offrire consigli a una donna che non sa più come aiutare quel suo ragazzo fragile. Come Marco, un passato da “drogato” di videogiochi, che però è riuscito a saltare fuori dal “buco nero” della dipendenza. E che adesso vuole raccontare la sua storia di riscatto, nella speranza che presto possa essere anche quella di Daniel.

 

CLICCA QUI PER LA LETTERA DELLA MAMMA DI DANIEL

 

Care Iene,

mi chiamo Marco e da poco ho compiuto 30 anni.

Dai 13 ai 24 anni ho sofferto di una forte dipendenza da videogame, che mi ha chiuso totalmente in me stesso.

Anche io giocavo in media 15 ore al giorno, a volte rimanendo sveglio anche fino alle sette di mattina, quando magari poi dovevo andare a scuola o a lavorare.

Ero totalmente immerso in un gioco molto simile a World of warcraft, uno dei giochi citati dalla madre di Daniel. Il mio si chiamava NWN, ovvero Neverwinter nights. Era un gioco fantasy medievale, ti creavi il tuo personaggio e interagivi con altri online acquisendo esperienza e aumentando di livello.

In una decina di anni di “carriera”, iniziando da semplice utente finii per diventare anche amministratore di una piccola community dello stesso gioco, coordinando una decina di persone chiamate "dungeon masters". Erano tutti appassionati come me e conosciuti nella community, persone che mi aiutavano nella gestione del server senza venire pagati, semplicemente per il gusto di farlo e sentirsi utili.

Io ne sono uscito sia perché ormai il gioco era diventato obsoleto, sia grazie all' aiuto di un centro specializzato in dipendenze del Policlinico Gemelli di Roma, di cui anche voi de Le iene avevate già parlato in un vostro servizio.

Sarò onesto: il centro non ha mai risolto il mio problema completamente, ma ha contribuito molto a farmi capire che cosa non andava intorno a me.

Perché quasi sempre dietro alle dipendenze c’è un problema emotivo di fondo, mai approfondito in famiglia e spesso molto sottovalutato.

Nel mio caso i miei genitori, seppur conviventi, non hanno mai saputo rapportarsi tra di loro come coppia genitoriale, generando confusione sulla strada da seguire: uno diceva una cosa e l' altro molto spesso l'esatto contrario, litigando furiosamente anche davanti a me, minando la loro stessa figura di autorità.

Questa incapacità di relazione genera conseguenze importanti nella crescita di un figlio, come ad esempio l’avere difficoltà a stringere rapporti con altre persone, specialmente di sesso opposto. Questo porta inevitabilmente a chiudersi in se stessi. La mente per proteggersi, rifiutando la realtà, cerca un ambiente ideale che tu stesso puoi plasmare e i videogame offrono questa opportunità. I contatti umani, da dietro uno schermo, sono limitati, una specie di filtro per un ambiente sicuro e protetto. Senza rischi.

Il mio suggerimento alla mamma di Daniel è quello di cercare di migliorare i rapporti con il padre del ragazzo, non tra loro stessi ma almeno di provare a trovare una via comune per dare un senso di guida a questo povero ragazzo che è di fatto imprigionato.

Se ciò non fosse possibile le consiglio di contattare il centro del Policlinico Gemelli, per un aiuto più mirato. Anche per Daniel sarebbe certamente un sollievo scoprire che altre persone hanno il suo stesso problema e queste potrebbero riuscire a scuoterlo.

Lo scoglio iniziale è convincerlo: la fase di negazione del problema l’abbiamo passata tutti. Anche i miei genitori provarono senza successo a obbligarmi a sedute con psicologi: le vedevo come una perdita di soldi e tempo, non essendo specializzati impiegano più tempo a inquadrare il problema e questo fa crescere la frustrazione per chi è costretto a parlarci e mettere continuamente in gioco i propri sentimenti parlando di sé. Specialmente se ancora non ci si fida.

Per aprirsi occorre trovare un professionista con cui creare empatia, e allo stesso tempo una persona che può in qualche modo sostituire un modello genitoriale non valido. Forza Daniel, ce la puoi fare!

Marco

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