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News | di Daniele Nardi |

"Non pensare, toglie energia". Daniele Nardi e la scalata al Mummery, mai riuscita finora | FOTO

Dopo la presentazione, ci arriva dalle cime del Pakistan la prima puntata del diario e delle foto in esclusiva dello scalatore che tenta un'impresa da cui nessuno finora è tornato: scalare il Mummery, uno sperone di ghiaccio di mille metri sul Nanga Parbat (8.126 metri) in Pakistan. Ecco i pericoli, i pensieri e le parole raccontati in prima persona dell'arrivo al campo 3 (5.700 metri) e di una resa per ripartire. In un sfida con se stessi tra i ghiacci  

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Le foto della sfida tra i ghiacci in Pakistan

 
I compagni scalata di Daniele Nardi, Karim Hayat e Tom Ballard partono da campo base per raggiungere campo 2
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Le foto della sfida tra i ghiacci in Pakistan

 
I compagni scalata di Daniele Nardi, Karim Hayat e Tom Ballard partono da campo base per raggiungere campo 2
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Il vento è forte e la mano non sente più niente. Per scattare la foto ho dovuto togliere un guanto, non volevo perdere l’immagine di Tom e Karim che passano oltre il crepaccio terminale, prima dell’ultima conca glaciale per arrivare a campo 3. Negli anni ho perso parte della sensibilità al polpastrello dell’indice destro, a forza di fotografare e riprendere in condizioni estreme.

Una folata più forte, la neve si alza e mi oscura la visuale, porto la mano sotto l’ascella per riportare le dita in temperatura. Guardo verso l’alto, Tom mi sta raggiungendo. Mi dà una pacca sulla spalla e io ricambio, come a dirgli che siamo quasi arrivati.

“Tom, some years ago I was here alone, I was really crazy”.

Lui mi guarda, un’emozione mi ha afferrato all’improvviso: non avrei mai creduto che ci sarei tornato davvero, che qualcuno avrebbe creduto al folle sogno del Mummery. Lui capisce, sorride, poi mi spinge per continuare a cercare la via in mezzo al dedalo di crepacci che ancora ci separa dal campo 3.

In questa fase ogni cosa appare più dura. Il fatto di non essere del tutto acclimatati ci fa sentire più freddo, più fatica, più paura, più indecisione. In tanti anni di esperienza, ho capito che l’assenza di ossigeno in condizioni estreme incide in maniera decisiva sulla capacità di ragionamento e di mantenimento della determinazione, della focalizzazione sull’obiettivo stabilito, della gestione del corpo. E questo altera la percezione di ogni cosa. Solo un distacco organizzato e allenato, da ciò che si prova e da ciò che trasmettono i nostri sensi, ci permette di restare al limite della vita, al limite del congelamento organico.

È tecnicamente impossibile sopravvivere al "wind-chill", all’alta quota, alla stanchezza, all’inverno del Karakorum senza attingere a risorse più nascoste dentro il nostro essere, energie profonde che vanno al di là della materia e ci permettono di proseguire.

Mentre cerchiamo di resistere alle raffiche, mi rendo conto che l’idea di "aver già fatto tanto in questa giornata" sta oscurando la prospettiva di raggiungere campo 3. 

Siamo in giro da tre giorni, qualcuno ha mal di gola, qualcuno ha la dissenteria, abbiamo fatto un sacco di lavoro e non sono sicuro di trovare spazio per piantare la tenda a campo 3. Se avessi più tempo potrei cercare con calma, ma la sera incalza e il buio è vicino. Ed ecco affacciarsi un'altra forza antagonista nascosta: l’ignoto. Tutto ciò che è ignoto genera una pressione mentale che ferma spesso le azioni anche dei più audaci. Come nella vita, quando dobbiamo affrontare qualcosa di nuovo, siamo tesi, concentrati, preoccupati, fintantoché non ci buttiamo e alla fine ci diciamo: era tutto qui? La stessa cosa accade quando si fanno attività estreme, con l’aggiunta che se sbagli…ti fai molto male. 

E ora come gestisco la tentazione di tornare indietro, che si afferma con maggiore forza nella mia testa man mano che la quota, il freddo, la stanchezza, l’ignoto corrodono la determinazione? 

Lascio correre i pensieri, mi distacco dalle sensazioni corporee e guardo in faccia la situazione nella maniera più oggettiva possibile. Mi fermo, respiro profondamente e ci metto un pizzico della follia costruita negli anni. Decido di prendermi un rischio: 

“Tom, Karim, don’t worry, camp 3 is up there”.

Si va avanti. Faccio uno scatto, chiedo uno sforzo ulteriore a polmoni e gambe per non lasciare spazio all’indecisione di piazzare la tenda da qualche parte che non sia campo 3, perché so che campo 3 esiste.

Guardo i miei compagni e spero di avere ragione, spero che il ghiacciaio non sia cambiato troppo. Il pendio finale sale diritto su, in faccia ai seracchi sommitali. La salita non finisce mai, al contrario della forza nelle gambe che pian piano viene meno. Karim ha un’espressione distrutta, lo vedo accasciarsi sulla piccozza per riprendere fiato. Tom fa un gesto incredibile, prende i 3 chili di corda che Karim ha appeso sul proprio zaino e se li carica sulle spalle. Poi dà un colpo di reni e riparte alla grande. 

Continuo a battere la traccia e a puntare all’obiettivo, quando mi accorgo che i pensieri mi stanno togliendo energia. Decido che è il momento di non avere più dubbi, cosi l’idea di abbandonare e scendere perde tutta la sua forza e si dissolve del tutto. 

Mi chiudo in me stesso e passo dopo passo raggiungo il crepaccio dove so che possiamo montare campo tre. Tutto è cambiato dall’ultima volta che sono stato qui, eppure dentro il crepaccio c’è ancora spazio per una tenda. L’emozione è forte e mi libero di una sensazione difficile da reggere, la responsabilità di aver portato così in alto due compagni senza la certezza chiara di una piazzola per il bivacco. Siamo a sinistra delle seraccate sommitali, protetti da un altro seracco più piccolo, proprio di fronte al canale di ingresso del mio sperone Mummery. Quando grido che abbiamo lo spazio per campo 3, in lontananza vedo il corpo di Karim rilassarsi, più volte mi aveva chiesto dove avremmo messo la tenda. Tom mi raggiunge, ci abbracciamo. Un abbraccio forte, veloce.

Poi, dentro il crepaccio, cominciamo a scavare nella neve per ricavare lo spazio necessario. Una volta fissata la tenda, Tom decide di scendere a campo 2, è stanco e non c’è abbastanza posto per dormire in tre.

Quando ci saluta e scompare oltre la cornice, mi viene un groppo alla gola. So che è fortissimo e che è abituato ad andare da solo, ma pensarlo sotto al Nanga, con il buio che incombe mi fa stare in apprensione.

In tenda ci infiliamo nel sacco a pelo per cercare di scaldarci. Ho sete e bevo dal thermos un misto di vitamina C, sali minerali e tè. Faccio giusto in tempo a vuotare un sacchetto di plastica pieno di frutta secca, e ci vomito dentro, a ripetizione. Stanchezza? Quota? Freddo? Paura? Terrore che una valanga distrugga la tenda con noi dentro?

Dopo aver vomitato non riesco più a mangiare, il mio ricarico calorico di oggi sono stati una barretta energetica, mezzo pacco liofilizzato e alcune mandorle.

Quando mi sono ripreso Karim mi dice che gli piacerebbe provare ad attaccare il Mummery:

“If tomorrow morning you feel better”, aggiunge.

La voglia di salire è tanta e quando spegniamo le luci l’adrenalina continua a scorrere. Sento Karim agitarsi tutta la notte. Alle 7 ci alziamo.

“Ho mal di testa” mi dice appena esce dal sacco a pelo. Fuori ci sono nuvole, un po’ di vento e nevica leggermente. Facciamo colazione, asciughiamo scarponi e guanti prima di uscire. Un caschetto ci cade e va a finire in fondo al crepaccio. Ci guardiamo, uno dei due dovrà scendere a recuperarlo.

Fissiamo una corda e mi calo dentro, il crepaccio è chiuso sul fondo e riesco a prendere il caschetto. Nel salire quei pochi metri mi rendo conto quanto mi siano costate queste giornate in alta quota, il fatto di non aver mangiato quasi nulla, di essere stato male. Non ho energie.

“È meglio scendere, siamo deboli oggi e il tempo non è buono”.

Lui era già pronto: “Sì è meglio, ci proviamo la prossima volta”.

Fare sport estremi non significa essere suicidi. Non significa "andare a tutti i costi", significa essere efficaci, risparmiare le energie, guardare all’obiettivo e raggiungerlo nella maniera più diretta.

Fatico a trattenermi dal non salire più su, ma so che questa decisione potrebbe salvarci la vita.

Le vie più incredibili, le linee più eleganti sulla montagna nascono da due battaglie, una tecnica e una interiore, dentro le nostre parti più oscure. Ognuno di noi nasconde dentro di sé una paura atavica, inconfessabile, che ci teniamo stretti. Una paura con la quale ci confrontiamo e lottiamo costantemente ogni giorno.

E’ un’amica? Ci salva la vita? Oppure ci annienta e ci blocca sempre di più?

In poche ore con Karim raggiungiamo il campo base. Ad aspettarci tutto lo staff, i poliziotti, i cuochi e soprattutto Tom e Rahmat. Ci gustiamo la cena, scambiamo qualche battuta e ci prepariamo al riposo.

Karim mi guarda: “If you look up it seems easy, but the glacier is very steep and hard”.

Sorrido e annuisco.

Siamo pronti per ritentare.

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