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HIV, 50 anni fa la prima vittima: oggi si muore ancora?

Nel 1969 morì negli Stati Uniti Robert Rayford, afroamericano di 16 anni. Solo negli anni ’80 la sua morte verrà riconosciuta come il primo caso di Hiv. Sono passati 50 anni e molte cose sono cambiate: “I farmaci oggi possono bloccare i danni causati dal virus e rendere la persona non contagiosa. Ma lo stigma è rimasto”

Cinquant’anni fa moriva Robert Rayford, quello che è stato poi riconosciuto come la prima vittima di Aids. Il ragazzo, un afroamericano di 15 anni, si presentò all’ospedale di St Louis (Missouri) verso la fine del 1968. Dagli esami emerse una grave infezione di clamidia. Il suo sistema immunitario era compromesso. Fu trattato in tre diversi ospedali per 18 mesi, fino a quando, il 15 maggio 1969, morì.

Solo molto tempo dopo, a metà degli anni ’80, la causa della sua morte fu riconosciuta come Aids. Oggi, dopo 50 anni, a che punto siamo con una possibile cura dell'HIV? Lo abbiamo chiesto a Massimo Cernuschi, infettivologo dell'ospedale San Raffaele di Milano e presidente di Associazione solidarietà Aids Milano.

“La prima diagnosi di Aids è stata fatta nell’84, quindi 15 anni dopo la morte di quella che a posteriori è stata riconosciuta come la prima vittima. Sono cambiate tante cose da allora. Adesso abbiamo farmaci che possono bloccare il replicarsi del virus e i danni che causa nel corpo. L’altro traguardo fondamentale degli ultimi anni è che le persone in terapia con viremia (presenza di virus in circolo, ndr) azzerata da almeno 3-6 mesi non trasmettono l'infezione attraverso rapporti sessuali non protetti. Significa che chi segue una terapia efficace non solo non si ammala ma non ha più nemmeno la possibilità di infettare gli altri con rapporti sessuali”. Un traguardo fondamentale, spiega Cernuschi, non solo perché “dal punto di vista epidemiologico si abbassa così la quantità di virus in circolazione nella popolazione”, ma anche perché, a differenza del passato, “le persone affette da HIV sono da considerare come tutte le altre, non devono più essere viste come una sorta di ‘pericolo pubblico’”.

Eppure, Cernuschi spiega che purtroppo anche nella società odierna queste persone vengono ancora viste con uno stigma. “Il vero problema è che il messaggio che una persona con HIV sia come tutte le altre non è ancora passato. La discriminazione c’è tutt'oggi: dietro l’HIV è rimasta quest’ombra morale per cui chi ha questo virus ha fatto qualcosa di sporco”. Insomma, il retaggio del passato per cui l’HIV era la malattia di tossicodipendenti e omosessuali, e per questo da condannare moralmente, fatica a svanire. “Lo sento quando parlo con le persone. Chi ha l’HIV cerca di non farlo sapere, al massimo lo dice a qualche amico, ma spesso non viene detto a lavoro o ai genitori. Il 95% dei casi di HIV sono non dichiarati, ovvero tendono a nasconderlo”.

Eppure gli ultimi dati dell'Istituto superiore di sanità, relativi al 2017, parlano chiaro. Nel 2017 i casi più numerosi sono attribuibili a trasmissione eterosessuale (il 46%), seguiti dai caso relativi a maschi che fanno sesso con maschi (38%). Mentre le persone che usano sostanze rappresentano il 3% di tutte le segnalazioni. 

In Italia nel 2017 sono state riportate, entro il 31 maggio 2018, 3.443 nuove diagnosi di infezione da HIV. Significa 5,7 nuovi casi per 100mila residenti. L'incidenza italiana è simile all'incidenza media osservata tra le nazioni dell'Unione europea. Nel nostro paese è stato registrato un incremento nella fascia d’età tra i 25 e i 29 anni. Troppo spesso la diagnosi avviene tardi, perché le persone non si sottopongono al test.

“Per far fare il test alle persone bisogna combattere lo stigma”, spiega Cernuschi. “La gente ha paura di fare il test, ha paura di venire emarginata”. Il test, spiega l’infettivologo, è uno strumento fondamentale per combattere la diffusione del virus. Anche in questo senso i dati dell’Iss sono chiari: nel 2017 sono stati segnalati 690 casi di Aids, peri a un’incidenza di 1,1 nuovi casi per 100mila residenti. Oltre il 70% dei casi di Aids segnalati nel 2017 era costituito da persone che non sapevano di essere sieropositive.

Si può ancora morire di Aids? “Di Aids si muore soprattutto se non si fa il test”. Per questo l’infettivologo insiste sull'importanza del test anche per i minorenni. Un tema, quello della possibilità di far fare il test dell’HIV anche per minori di 18 anni senza bisogno del consenso dei genitori, di cui ci siamo occupati nel servizio di Nadia Toffa che potete vedere qui sotto. “È ormai da tanto che la proposta è ferma. Basta pensare che una 16enne può abortire senza dirlo ai genitori ma non può fare il test senza il loro consenso per capire quanto siamo messi male”. Sarebbe un passo davvero importante, soprattutto considerando che sono tanti i giovani a fare sesso non protetto. “Tutti i rapporti non protetti sono a rischio fuori da una relazione monogamica. È come giocare alla roulette russa”.

Al mondo sono 37 milioni le persone che vivono con HIV. In Italia si stima che ci siano circa 130mila  sieropositivi. “I posti dove nel mondo si è registrata una riduzione evidentissima della diffusione di HIV sono San Francisco, Londra, Australia”, dice l’infettivologo. “Sono posti dove il test viene fatto molto più frequentemente. Inoltre, in città come San Francisco, Londra, Parigi è anche più diffusa la PrEP, ovvero la profilassi pre-esposizione, contro le infezioni da Hiv. Si tratta di un farmaco che, se assunto correttamente, previene la trasmissione del virus Hiv attraverso rapporti sessuali non protetti", una forma di prevenzione di cui noi de Le Iene ci siamo occupati nel 2017 con un servizio di Nadia Toffa (clicca qui per vederlo). 

Nel nostro paese, spiega Cernuschi, un passo in avanti è la “possibilità, soprattutto nelle grandi città, di fare il test rapido al di fuori delle strutture ospedaliere, presso le associazioni di volontariato. È un passo importante perché, oltre a essere rapido e gratuito, riduce la paura di fare il test e lo porta in una situazione extraospedaliera”.

Quanto siamo lontani da una possibile cura? “Ci sono vaccini preventivi che sembrano essere sulla buona strada, ma devono ancora essere sperimentati su larga scala. Per quanto riguarda i vaccini curativi è più difficile. Forse ci sarà fra 10, 20 o 30 anni. Ma oggi la cura per la popolazione è fare il test e trattare le persone con HIV. Adesso è più importante questo che pensare a una cura perché abbiamo già strumenti più che sufficienti affinché la persona con HIV abbia una vita comparabile a quella di tutti gli altri”. 

Guarda qui sotto il servizio di Nadia Toffa sul test dell'HIV per i minorenni.

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