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Coronavirus, gli studi: “Il virus arrivato in Italia è di un ceppo diverso e più contagioso di quello di Wuhan”

Una serie di studi citati dal New York Times mostrano come il ceppo di coronavirus arrivato in Italia, chiamato 614G, fosse una mutazione del virus ancestrale. E le ricerche hanno mostrato come sia più contagioso: questo contribuisce a spiegare la così rapida e massiccia diffusione del Covid in Europa e America

Il ceppo di coronavirus che ha colpito l’Italia a febbraio potrebbe non essere lo stesso che contemporaneamente costringeva Wuhan al lockdown. Una piccola mutazione, nella fase iniziale della pandemia, che avrebbe reso il coronavirus molto più contagioso per gli umani e quindi più difficile da fermare.

A riportare questa tesi è il prestigioso New York Times: la variante si chiama 614G ed è stata catalogata per la prima volta nella Cina dell’est a gennaio, per poi diffondersi velocemente in Europa e negli Stati Uniti. Nel giro di pochi mesi questa mutazione avrebbe “soppiantato” la versione originale del virus, raggiungendo tutto il pianeta.

I primi a suggerire questa ipotesi sono stati i ricercatori del laboratorio nazionale di ricerca di Los Alamos, negli Stati Uniti, a maggio. Un’ipotesi però che - secondo quanto riporta il Nyt - non è stata subito accettata dai ricercatori a livello globale. Una serie di nuovi studi però, condotti tra gli Stati Uniti e il Regno Unito, sembrano aver provato che questa variante sia più contagiosa della versione originale del virus.

Una scoperta importantissima, perché spiegherebbe chiaramente il perché il virus in Europa si sia diffuso in modo molto più incontrollato rispetto alla Cina: non perché noi siamo stati meno capaci di combatterlo, non perché il regime di Pechino fosse più efficiente, ma semplicemente perché stavamo lottando contro un nemico diverso.

E questo riguarda direttamente anche l’Italia: come mostrano i dati raccolti in uno studio peruviano, tra gennaio e febbraio nel nostro paese il 91% dei casi erano riconducibili al ceppo 614G, mentre il focolaio di Wuhan era quasi unicamente causato dal virus “originario”. Nello stesso periodo di tempo, nel Regno Unito i casi dovuti al 614G sarebbero stati il 38%, e negli Stati Uniti il 5%.

E’ possibile che sia proprio dopo esser arrivato in Italia, il primo paese europeo colpito in modo significativo dalla pandemia, che il ceppo 614G si sia rapidamente diffuso in tutto il continente. Quello che sembra per ora dimostrato, comunque, è che questa variante non sia significativamente più letale del virus ancestrale, né che porti a sintomi più seri. Gli scienziati presumono che sia da questo ceppo che si sarebbero poi sviluppate le successive mutazioni.

Come detto, questi studi contribuirebbero a spiegare perché abbia contagiato così massicciamente la popolazione in Europa e negli Stati Uniti rispetto all’omologo di Wuhan. Ovviamente come vi abbiamo più volte raccontato sono anche altri i fattori che hanno contribuito alla diffusione capillare del virus, dall’inquinamento ambientale alla irradiazione solare. Ma sicuramente si tratta di un tassello aggiuntivo importantissimo per capire la dinamica di una pandemia su cui rimane ancora molto da capire.

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Lo studio della Società italiana di medicina ambientale sul collegamento tra inquinamento e coronavirus, di cui noi vi abbiamo parlato già a marzo, è stato pubblicato sul British Medical Journal confermando le evidenze iniziali: le polveri sottili presenti nell’aria hanno “aperto un’autostrada al coronavirus”. Per prevenire una seconda ondata bisognerebbe usare la “mascherina anche all’esterno dove non fossero assicurate distanze di almeno 6-8 metri”

 

Uno studio italiano mostra come le zone più colpite dal coronavirus siano quello che ricevono una minor irradiazione di raggi UV. Per gli autori i risultati “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare, che è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus sia di favorire la sintesi della vitamina D, che potrebbe svolgere un ruolo da antagonista dell’infezione”

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