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Coronavirus, non tutti i dati sono pubblici. E questo è un problema per la scienza (e per noi)

Dall’Accademia dei lincei alla Società italiana di statistica, sono mesi che gli scienziati che chiedono al governo di rendere pubblici tutti i dati sul coronavirus. Il presidente Conte l’ha chiesto all’Istituto superiore di sanità. Ma perché è importante?

“Ho chiesto al ministero della Salute e anche al direttore dell’Iss di condividere i dati del monitoraggio. Vogliamo che siano accessibili alla comunità scientifica e a tutti i cittadini”. Finalmente ieri il presidente del Consiglio Conte è intervenuto sulla questione dei dati. È da mesi, infatti, che la comunità scientifica chiede al governo che i dati epidemiologici siano pubblici. È sulla base di questi, categorizzati in 21 indicatori, come la percentuale di tamponi positivi e i ricoveri in ospedale, che l’Italia è stata divisa in regioni gialle, arancioni e rosse. E sulla base dei colori, che segnano il diverso tipo di allarme, si decidono le chiusure di ristoranti, bar e attività commerciali. I dati vengono raccolti dalle Regioni, che poi li trasmettono all’Istituto superiore di sanità. 

Il fisico Giorgio Parisi è stato uno dei primi a chiedere che tutti questi dati siano pubblici e a giugno l’Accademia dei lincei di cui è presidente ha pubblicato un appello rivolto al governo. Un esempio su tutti sono i dati delle terapie intensive: sappiamo quanti sono in terapia intensiva, ma non sappiamo quanti entrano e quanti escono. In Francia, per dire, questi dati si trovano in rete. 

Andrea Crisanti, il virologo dietro al successo del modello veneto, in un’intervista a La Stampa ha messo in guardia: “le Regioni potrebbero truccare i numeri per evitare il lockdown”. E Salvini si è spinto a dire che i dati su cui si basa il nuovo dpcm “sono inaffidabili”, e “sono vecchi di dieci giorni”. Quello della tempestività dei dati è un vero problema per la gestione dell’epidemia. “In Germania la stima delle persone che sono contagiate si riesce a fare con tre quattro giorni di ritardo e non dieci, quindi c’è una stima fresca sull’andamento dell’epidemia”, spiega Parisi a Giulia Innocenzi.

Il nuovo dpcm che entrerà in vigore domani si baserebbe sui dati raccolti fino al 25 ottobre, che è la data in cui Conte ha firmato lo scorso dpcm. Quindi come facciamo a sapere se le misure già adottate in alcune regioni, come il coprifuoco e la chiusura di bar e ristoranti alle 18, hanno avuto effetto? “Non abbiamo nessuna certezza che queste misure servano a niente”, spiega Enrico Bucci, professore associato della Temple university di Philadelphia. “I dati che noi abbiamo sono inutili”. Per esempio l’Rt, che indica quante persone mediamente un infetto infetterà, che secondo Bucci quello pubblicato dall’Iss “è una fandonia”. “È calcolato sui sintomatici con un ritardo di due settimane e non rende conto dell’andamento epidemico. Gli unici dati che per ora funzionano sono i dati di riempimento degli ospedali”.

Il problema è che con i dati che abbiamo a disposizione non è chiaro da dove si propaghi il virus. Per esempio, la chiusura dei ristoranti è una misura efficace oppure no? “Questo non lo sa nessuno al mondo in realtà”, risponde il professor Parisi alla Innocenzi. “Il luogo più importante per la diffusione del virus sono i mezzi pubblici, secondi i ristoranti, terzo il lavoro”. Purtroppo però nessun paese sta raccogliendo i dati per sapere, per esempio, “quanto tempo ciascuna persona positiva ha passato in autobus, che lavoro fa e così via…”, spiega Parisi. Che dall’inizio della pandemia continua a chiedere la disponibilità dei dati. Quelli dell’Istituto superiore di sanità “sono sotto forma di grafico e non sotto forma digitale. Una cosa è vedere una bella figura e una cosa è studiarli scientificamente”. Anche Marco Cappato, leader dell’Associazione Luca Coscioni, chiede “un unico database nazionale dove convergano i dati, e che siano pubblicati in formato aperto e disaggregati, per consentire a ciascun ricercatore di fare le proprie ricerche utilizzando liberamente quei dati”. 

Dalle pagine del Corriere della sera due ex presidenti dell’Istat, Giorgio Alleva e Alberto Zuliani, hanno chiesto “un sistema di raccolta di dati che consenta un monitoraggio accurato”. E cioè basterebbero 10.000 tamponi a settimana su un campione statistico ben fatto, così da verificare in tempo reale come sta andando la diffusione del virus. 

Ora anche Conte chiede che vengano resi pubblici tutti i dati sul coronavirus. Se non dovesse succedere l’associazione Luca Coscioni è pronta a chiedere “a chiunque abbia la disponibilità di quei dati grezzi di inviarceli, noi li verificheremo e li daremo a disposizione del pubblico”. Un vero e proprio invito ai delatori da parte di Marco Cappato, in favore della scienza e di tutti noi cittadini. Anche perché il disagio e la violenza nascono se i cittadini non sanno se i loro sacrifici portano a dei risultati misurabili.

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