Strage di Erba, Antonino Monteleone risponde a Selvaggia Lucarelli e Gianluigi Nuzzi
Dopo il nostro servizio sulla strage di Erba di qui sopra, ecco la replica di Antonino Monteleone agli attacchi di Selvaggia Lucarelli e Gianluigi Nuzzi nel suo articolo pubblicato oggi dal quotidiano La Verità
Sapete perché non c’è mai stato un vero confronto sull’intera vicenda processuale relativa ai fatti della "Strage di Erba"?
Provo a riassumerlo così: durante le indagini i giornalisti pendono dalle labbra di pubblici ministeri e polizia giudiziaria.
Durante il processo si dà un piccolo spazio agli argomenti della difesa, ma la sproporzione è tale che il loro peso diviene irrilevante. A questo aggiungete che i tre quarti di chi oggi ne parla – in una strenua difesa della verità giudiziaria - non ha seguito il processo, né ha rimediato leggendo i verbali del dibattimento.
Sarei scorretto se non avessi le prove per dimostrare ciò che dico, ma le prove ci sono, e sono tante. Ne mostro alcune.
Ieri l’altro a Le Iene abbiamo raccontato che la Cassazione, con una decisione della quale non si conoscono ancora le motivazioni, ha respinto il ricorso della difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano contro la decisione della Corte d’Assise di Como di rifiutare l’analisi di molti reperti mai analizzati prima, e altri sui quali si chiede di ripetere le analisi con le nuove tecnologie a disposizione (l’evoluzione nel campo della genetica forense ha ritmi esponenziali).
Nel frattempo abbiamo conosciuto un tunisino, Abdi Kais, che oltre a essere stato residente in casa di Azouz Marzouk e Raffaella Castagna, ci ha rivelato dei fatti inediti a proposito di una faida tra tunisini e marocchini per la supremazia delle piazze di spaccio in provincia di Como.
Poi ha fatto cenno al fatto che le cantine della casa di Via Diaz fossero usate per il deposito temporaneo di denaro e droga.
Il servizio non era ancora andato in onda quando Selvaggia Lucarelli ha emesso il suo verdetto a mezzo Twitter: con sarcasmo definisce Abdi Kais "attendibilissimo", e soprattutto sostiene che "non ci fosse nessuna cantina a casa di Raffaella e Azouz".
Come si fa a non arrossire di vergogna quando si afferma una falsità così macroscopica? Sarebbe bastato andare sul luogo della strage - come ho fatto io, non so la Signora Lucarelli – oppure leggere gli atti del dibattimento - come ho fatto io, non so la Signora Lucarelli – oppure fare una semplice visura catastale per sapere che le cantine c’erano, eccome.
Ora, non mi aspetto che chi è chiamato a giudicare presso il Tribunale televisivo di Ballando con le Stelle abbia anche competenze in materia di processo penale, assunzione dei mezzi di prova, mezzi di impugnazione, e tutta questa roba noiosa.
Né mi aspetto che chi dice che una cosa “è vera perché lo dicono i Giudici” possa tollerare che qualcuno, dopo aver letto gli atti, nutra dubbi sinceri sul modo in cui è stato condotto il processo a Rosa Bazzi e Olindo Romano.
Me lo aspetterei da Gianluigi Nuzzi, conduttore di Quarto Grado e navigato cronista.
Eppure anche lui, non si lascia sfuggire l’occasione di intervenire a mezzo social e con la consueta approssimazione.
Nuzzi scrive che la “Suprema Corte (di Cassazione, nda) ha appena bocciato la "variazione (sic!) di reperti che sarebbero stati decisivi per la difesa”. Variazione non sembra un errore di battitura e onestamente non saprei quale altra parola volesse scrivere, né che cosa voglia intendere.
Ma l’errore più grossolano sta qui: “ora ci sarebbe un’improbabile fuga dai tetti del reale assassino? Peccato che il primo soccorritore ha trovato il lucernario dei Frigerio chiuso da dentro e peccato che lo abbia aperto lui”.
La prima ipotesi – la fuga dai tetti degli assassini - non è affatto nuova, e Nuzzi lo saprebbe se solo conoscesse gli argomenti che la difesa ha portato in aula sin dal processo di primo grado.
La seconda affermazione – che il primo soccorritore abbia trovato lucernario chiuso da dentro - è una vera e propria sciocchezza: non esiste un atto, né una foto, che possa provarlo.
Anzi. Il primo soccorritore testimoniò di non esser potuto salire in casa Frigerio-Cherubini nonostante sia lui sia Frigerio sentissero ancora le urla della povera Valeria Cherubini che chiedeva “AIUTO”. Troppe fiamme e troppo fumo lo impedivano.
Nuzzi, oltre ad aver letto un altro processo, deve averne visto un altro anche in televisione.
D’altra parte non è nuovo a questi scivoloni.
A maggio del 2019, sempre dopo un servizio de “Le Iene”, ha scritto via social che “Rosa Bazzi rideva durante la proiezione del video del piccolo (Youssef Marzouk, nda) in aula”.
Una balla colossale, anzi due.
La prima: nessun video di Youssef Marzouk è mai stato proiettato nell’aula del dibattimento.
La seconda: Rosa Bazzi sorride, sì, ma lo fa durante una pausa del dibattimento. Il suo viso sorridente è stato poi montato AD ARTE su altri momenti del processo.
Nuzzi si lamenta: in Italia qualcuno “vuole introdurre la presunzione di innocenza anche dopo il giudizio definitivo della Cassazione”.
Gianluigi, non è così e ti spiego il motivo.
Nel nostro paese, ogni anno, decine di sentenze penali definitive vengono "revisionate", cioè viene accertato che i Giudici hanno commesso un errore, perché non hanno valutato una prova decisiva o l’hanno valutata male; perché è sopravvenuta una prova nuova; perché non hanno rispettato i diritti degli imputati. E le ipotesi non finiscono qui.
La possibilità che una sentenza di condanna (o di assoluzione), convalidata in Cassazione, possa essere messa in discussione è una conquista della democrazia, che qualcuno dà per scontata.
Durante il fascismo quello del "giudicato" era diventato un vero e proprio mito, una verità inscalfibile e immutabile; perché il regime non aveva a cuore i diritti degli indagati, né degli imputati, figurarsi dei condannati. E così il processo penale era stato ridotto a mezzo per il controllo della società.
Fatemi raccontare una piccola storia.
Avola, Sicilia, 1954.
Due fratelli, Paolo e Salvatore Gallo, litigano violentemente.
Il 7 ottobre la moglie di Paolo va dai Carabinieri a denunciare la scomparsa del marito. La donna racconta del litigio e i Carabinieri cominciano le ricerche, prima nella masseria dove lavorava il fratello Salvatore, poi anche nell’abitazione. Trovano il berretto di Paolo, macchie di sangue su un paio di pantaloni di Salvatore e anche su una camicia del figlio di Salvatore, Sebastiano.
L’università di Catania accerta che quello è il sangue di Paolo Gallo. Tutti testimoniano delle liti furibonde tra i due fratelli.
Il processo si apre nel 1965 e alla sbarra ci sono due persone: Salvatore e Sebastiano, fratello e nipote dello scomparso.
Primo grado: ergastolo per Salvatore, quattordici anni per Sebastiano.
Appello: ergastolo per Salvatore Gallo, assoluzione per insufficienza di prove per il figlio Sebastiano - che comunque sconterà quasi due anni per occultamento di cadavere.
La Cassazione conferma l’ergastolo per Salvatore Gallo.
La verità dei Giudici è cristallizzata e nulla la può modificare.
Che Salvatore Gallo fosse l’assassino del fratello è la verità perché lo hanno stabilito i Giudici.
E i Giudici hanno stabilito che Salvatore Gallo è l’assassino, perché è LA VERITÀ.
Per fortuna (o sfortuna), a un giornalista che si chiama Enzo Asciolla non tornano i conti e comincia a indagare. Troverà una serie di riscontri, che a sette anni di distanza esatti - il 7 ottobre 1961 – porteranno al ritrovamento di Paolo Gallo, vivo e vegeto.
Si scatena un dibattito parlamentare sul codice di procedura penale irrigidito dal regime fascista, e si arriva alla modifica delle regole sulla revisione.
Salvatore Gallo, nel 1966, otterrà la revisione del processo riacquistando la libertà che “ventisei giudici in tre gradi di giudizio” (vi ricorda qualcosa questa formula?) gli avevano ingiustamente sottratto.
La storia ci insegna molte cose. Ci insegna che la condanna definitiva non è una verità immutabile ed eterna, da difendere anche davanti a macroscopiche evidenze. E soprattutto ci insegna quanto può rivelarsi prezioso il lavoro dei giornalisti che dubitano della verità dei Giudici, non limitandosi a riportarla pedissequamente e a ringhiare contro chiunque osi metterla in discussione.
È il bello della democrazia, amici.