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“Dieci giorni di richieste d'aiuto inascoltate e mio papà è morto per coronavirus” | VIDEO

Kevin Attarantato, 26 anni, racconta a Iene.it il dramma che ha vissuto con il padre stroncato dal coronavirus, a 55 anni senza soffrire di altre malattie, in provincia di Pesaro. Con Giulia Innocenzi ripercorre quei 10 giorni di telefonate senza risposta, richieste di aiuto cadute nel vuoto e tanta sofferenza. Nel giorno tragico in cui si contano più morti (969) dall'inizio dell'epidemia

Per 10 giorni non ci hanno ascoltato, e mio papà è morto poi per il coronavirus”. Kevin Attarantato, 26 anni, racconta a Iene.it il dramma che ha vissuto con il padre stroncato dal COVID-19. Kevin ripercorre con Giulia Innocenzi un lungo calvario di tre settimane fatto di telefonate senza risposta, richieste di aiuto cadute nel vuoto e tanta sofferenza. Solo 10 giorni dopo la prima richiesta di aiuto il 55enne è stato sottoposto al tampone, Giancarlo è morto poi il 19 marzo, il giorno della festa del papà. La loro storia ci porta a Borgo Santa Maria, in provincia di Pesaro e a una domanda che rimane senza risposta: se qualcuno fosse intervenuto prima si sarebbe potuto salvare quell’uomo? Tutto questo nel giorno tragico in cui sin Italia i contano più morti (969) dall'inizio dell'epidemia.

Hai perso il tuo papà per il coronavirus. Questo incubo quando è iniziato?
“Il 28 febbraio, quando mio papà è tornato a casa dal lavoro. Diceva di sentire freddo, ancora non eravamo nell’emergenza del coronavirus. Aveva la febbre che continuava ad aumentare. Ci siamo spaventati”.

Che cosa hai fatto?
“Abbiamo provato a chiamare il 112 per chiedere un tampone. Da lì ci hanno rimandato al 1500: dopo ore di tentativi mi hanno ribadito di stare a casa e lavare le mani. Nulla di più: la febbre ha raggiunto 39, mio papà non aveva patologie pregresse. Era la persona più sana del mondo. Ha chiamato il medico curante che gli ha prescritto solo della semplice tachipirina”.

Qualcuno ha ipotizzato che fosse coronavirus?
“No. Sia il medico di base che il 1500 parlavano di semplice influenza perché per loro non c’erano sintomi gravi. Noi ci siamo fidati. Attorno al 5 marzo, dopo l’ennesima telefonata, il medico di base ci ha proposto una lastra ai polmoni. E qui inizia un altro calvario. Lui era molto debilitato: tremava e cadeva. Non riusciva neppure a spostarsi dal letto al divano. Non riusciva a mangiare, diceva di sentire un sapore metallico in bocca. Per portarlo in ospedale a Pesaro ho chiesto aiuto al 118, ma mi hanno risposto che lo avrebbero potuto portare in pronto soccorso, esponendolo però ai rischi di venire in contatto con persone infette. Ancora non si pensava potesse avere il coronavirus”.

Allora cosa avete fatto?
C’è stato un rimpallo tra 118 e medico curante, e intanto mio papà stava sempre peggio. Alla fine l’ho accompagnato in auto con tutte le precauzioni del caso. Abbiamo mandato la lastra al medico di base, ma per lui non era nulla di grave. Gli ha prescritto antibiotici a base di cortisone. Ha iniziato questa cura da subito, ma continuava a sentirsi sempre peggio. Il giorno dopo non riusciva neanche a parlare. Si è aggiunta anche la tosse, fino al tracollo qualche ora più tardi, con la febbre a 40. Ho chiamato il 118 spiegando che era da oltre 10 giorni a casa con la febbre alta. L’hanno caricato sull’ambulanza per portarlo in ospedale a Urbino. Questa è l’ultima immagine che ho di lui”.

Sei riuscito a sentirlo almeno?
“L’ultima volta che l’ho sentito era il giorno dopo. Mi ha detto che lo avrebbero trasferito a Jesi e che sarebbe stato intubato perché aveva una polmonite virale. Ancora non capiamo perché nessuno l’ha vista dalla lastra fatta due giorni prima. Non l’ho più sentito perché era sotto sedativi. Sono riuscito a parlare solo con i medici e nessuno mi ha detto che stava morendo”.

Quando hai saputo che non ce l’aveva fatta?
“Una settimana dopo il ricovero i medici dicono che non avrebbe superato la notte. Lui resiste per altri due giorni finché la sera del 19 marzo, la festa del papà, mi chiamano per dirmi che il suo cuore non aveva retto e che i reni si erano bloccati. Non credevo potesse finire così. Quel giorno avevo chiesto ai medici di avvicinare il telefono al suo orecchio per fargli gli auguri. Sapevo che non mi avrebbe potuto sentire perché sedato, ma non mi hanno dato neppure questa soddisfazione. Era una brava persona di quelle rare. E non lo dico perché era mio papà”.

Che cosa ti fa più arrabbiare di tutta questa vicenda?

Il tempo passato da quando abbiamo chiesto aiuto la prima volta fino al ricovero. Non è come ci dicono. Se questo virus ti prende, ti può portare via. E se intervengono tardi, non c’è scampo. Voglio dire alle persone di stare a casa e se vedono un susseguirsi di patologie non aspettate a chiamare aiuto”.

Su Iene.it vi abbiamo raccontato anche il dramma di Silvia, che ha perso il papà per il coronavirus. Non l’ha potuto neppure salutare un’ultima volta e ora sta affrontando anche problemi economici per questa tragica perdita improvvisa (qui l’intervista). E l’impegno del maggiore dell’esercito Nadir Rachedi, medico anestesista, uno dei 120 operatori messi in campo dalle Forze. “Poter contribuire a fermare il contagio è quello che ci fa andare avanti ogni giorno”, ci ha detto (qui l’intervista completa).

Kevin e il suo papà morto di coronavirus

 
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