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Maxiprocesso alla mafia dei Nebrodi, Antoci: “Ha vinto lo Stato” | VIDEO

Inizia nell’aula bunker di Messina il processo alla mafia rurale che si sarebbe accaparrata milioni di euro di finanziamenti europei. Cento gli imputati. Presente anche Giuseppe Antoci, che da presidente del Parco dei Nebrodi l’ha combattuta duramente e che per questo è stato vittima di un attentato, come vi abbiamo raccontato con Gaetano Pecoraro: “Voglio guardarli negli occhi gli imputati, uno per uno”

“Voglio guardarli negli occhi gli imputati, uno per uno”. Giuseppe Antoci si è presentato nell’aula bunker del carcere Gazzi di Messina all’apertura del “maxiprocesso Nebrodi” con cento imputati, tra vecchi e nuovi boss che sarebbero coinvolti nelle truffe milionarie sui fondi dell’Unione europea. Lui che, quando era presidente del Parco dei Nebrodi in Sicilia, ha subìto nel 2016 un attentato proprio per la sua lotta a queste truffe dei clan.

Un attentato sventato dalla scorta di cui vi abbiamo parlato già nel 2016 come vedete qui sopra e di cui siamo occupati poi con altri servizi sempre di Gaetano Pecoraro. “Ha vinto lo Stato”, dice oggi Antoci. “Dobbiamo sperare e capire che ce la possiamo fare, senza fare gli eroi, ma semplicemente adempiendo ai propri doveri, con la schiena dritta e non abbassando mai gli occhi. Bisogna dare un senso alle proprie scelte, e ne vale la pena”.

L’ATTENTATO E IL “MASCARIAMENTO”
Giuseppe Antoci da presidente del Parco dei Nebrodi con il suo protocollo di contrasto alla criminalità organizzata aveva provocato la perdita di un business milionario per la mafia rurale. Per questo Il 18 maggio 2016 è arrivato l’attentato in una strada isolata: la macchina blindata e l’intervento tempestivo degli agenti della scorta lo hanno salvato dalle pallottole. Anche ad anni di distanza, ora che Antoci non ricopre più alcun incarico pubblico, la sua figura sembra ancora al centro dell’attenzione della malavita e di una possibile operazione di “mascariamento”, di macchina del fango volta a oscura la sua figura e la sua lotta ai clan.

Un anno fa vi abbiamo raccontato i nostri dubbi su quanto concluso della Commissione antimafia siciliana che con un'inchiesta aveva lasciato aperte tre conclusioni su quell’attentato: atto dimostrativo non destinato a uccidere, messinscena a sua insaputa, attentato mafioso (qui potete trovare anche il servizio successivo). Di queste tre, si sosteneva, “l’attentato di mafia è la meno plausibile”. Una posizione ribadita dal presidente di quella commissione, Claudio Fava.

Il gip del Tribunale di Messina ha messo poi la parola fine in luglio a queste ipotesi dal punto di vista giudiziario. “Sebbene le indagini non abbiano consentito di risalire agli autori dell’attentato", scrive disponendo l’archiviazione dell’inchiesta bis, “la conclusione raggiunta dalla Commissione d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia ossia che l’ipotesi del fallito attentato mafioso sia la meno plausibile appare preconcetta e comunque non supportata da alcun dato probatorio". “Sono pure elucubrazioni mentali”, si legge nell’ordinanza, “non corroborate da alcun dato probatorio pensare a un coinvolgimento di Antoci o degli agenti della sua scorta”.

IL MAXIPROCESSO
Il processo appena iniziato a Messina nasce dal blitz del gennaio 2020 con 94 arresti, a cui sono seguiti in dicembre 97 rinvii a giudizio. L’accusa è di far parte di una delle organizzazioni criminali più pericolose, la mafia rurale, capace di accaparrarsi senza mai dare nell’occhio enormi flussi di denaro pubblico (parliamo di milioni e milioni di euro). Tra gli imputati ci sono alcuni esponenti delle famiglie mafiose di Tortorici, il cuore del Parco dei Nebrodi, i Bontempo Scavo e i Batanesi, accusati a vario titolo di intestazione fittizia di beni, estorsione, truffa aggravata, associazione mafiosa e traffico di droga.

Il meccanismo della truffa sarebbe questo: si individuavano terreni “liberi”, sui quali cioè non sono stati richiesti i finanziamenti europei, in un secondo momento i proprietari di quei terreni vengono convinti con le buone o con le cattive a sottoscrivere contratti di affitto a prestanomi della mafia. Mafia che alla fine intasca i ricchi fondi europei.

“Abbiamo scoperto che i terreni degli enti pubblici sono stati per anni fonte di finanziamento per alcune associazioni mafiose”, racconta Antoci alla Iena. “La torta era divisa in mano a pochi. Con 1.000 ettari di terreno si paga un affitto di 52mila euro l’anno, ma si arriva a ottenere anche 550mila euro l’anno di finanziamenti. Un sistema che consentiva di ottenere dall’Europa milioni e milioni di euro in maniera assolutamente legalizzata e senza rischio”.

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