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Daniele Nardi: l'ultima intervista a Le Iene prima del Nanga Parbat | VIDEO

Quattro giorni prima di partire per il Nanga Parbat Daniele Nardi, lo scalatore oggi disperso, ci aveva parlato del suo sogno: “voglio lasciare un segno indelebile nella storia dell’alpinismo”

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“Vado a cercare di aprire una via nuova in inverno su una montagna di 8000 metri. Passerò da una parte dove non è mai passato nessuno e lo farò d’inverno, che è la condizione più difficile”. Così Daniele Nardi, il 14 dicembre scorso (4 giorni prima di partire alla volta del Nanga Parbat) raccontava nella sua ultima intervista, che manderemo in onda domenica a Le Iene, quel suo sogno che era diventato realtà. Da domenica scorsa purtroppo non si hanno più notizie dei due scalatori e le ricerche sono al momento sospese per maltempo. Nei giorni scorsi si era tentato in diversi modi di aiutare i due alpinisti, ma i tentativi degli ex compagni di cordata pachistani e l'idea di far decollare tre droni dal campo base del K2 erano erano naufragati a causa delle tempeste che imperversano sulla zona, e del rischio altissimo di valanghe. E poi ci si era messa anche una polemica sui fondi per fare alzare l'elisoccorso della compagnia privata Askari, che non aveva accettato di farlo decollare senza prima ricevere le spese di gestione della missione. 

“Ma perché uno deve fare una cosa così?”, gli avevamo chiesto, e lui, candidamente, ci aveva risposto: “questo per me fa parte di una promessa che mi sono fatto da bambino, quando a un certo punto ho deciso di fare l’alpinista e ho scelto di lasciare un segno indelebile nella storia dell’alpinismo: per farlo – ha spiegato Daniele - dovevo fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima”. 

Un’impresa tanto nobile quanto pericolosa, visto il destino degli altri scalatori che prima di lui avevano avuto a che fare con quella montagna, d’inverno, per quella strada da lui scelta: “Sono tutti morti – aveva confermato con una leggera risata Daniele -.  È una montagna conosciuta come montagna assassina. Uno su quattro non tornava a casa “. 

Uno su quattro, però, che erano passati per la via più facile e non dallo Sperone Mummery, uno sperone di roccia e ghiaccio alto mille metri, scelto da Nardi e dalla sua spedizione: “E' in assoluto la via più diretta alla vetta, più elegante, più bella – aveva aggiunto lo scalatore - ma anche più pericolosa. Ho scelto quella via perché quando vedi la montagna da quella valle, a forma di imbuto, dalla vetta al campo base è proprio una linea diretta, una super diretta alla vetta del Nanga Parbat e che in salita non l’ha mai scalata nessuno”.

E proprio quella super diretta, ma in discesa, era stata nel giugno del 1970 teatro della tragedia che aveva coinvolto Reinhold Messner, che si era salvato ma che lì era stato costretto ad abbandonare il fratello morto, travolto da una valanga.

Delle difficoltà fisiche della missione Daniele ci aveva parlato in modo chiaro: “esiste una zona a 7mila metri che si chiama la zona della morte, perché l’organismo umano non è più in grado di adattarsi, quindi se noi siamo lì su più di un tot di giorni, in realtà moriamo per mancanza di ossigeno, perché lì deperisce l’organismo”.

E tra le altre difficoltà anche “gli spindrift, polvere di neve che scende con il vento lungo la parete, che è molto fastidioso. Possono cadere le valanghe dall’alto, che creano impatti di aria molto forti, venti acceleranti, che viaggiano tra i 100 e i 200 chilometri all’ora e che tu puoi prevedere solo con otto ore di anticipo. Quindi se ti trovi sulla montagna e non riesci a proteggerti nel momento in cui questo vento arriva sei spacciato. Poi c’è il freddo – aveva aggiunto Daniele - a 40-50° sottozero e magari ti trovi sopra i 6mila metri, hai una percezione del freddo ancora più forte e sei in una lotta continua contro il congelamento”.

“E se ti accorgi che non ce la fai, c’è qualcuno in grado di venirti a prendere?“, gli avevamo chiesto. “D’inverno proprio no – era stata la sua risposta secca -. Nella maggior parte dei casi quando sei sopra i 7mila è difficilissimo portar giù una persona: gli elicotteri non volano, non ci arrivi e se anche tu arrivassi a piedi portare giù 70-80 chili di persona a quelle quote è veramente troppo faticoso “

Insomma una vera impresa da pioniere, perché come lui stesso ci aveva detto, sul Nanga Parbat ci sono “tanti, troppi, troppi morti”.    

“E se tu riuscissi a conquistare la vetta, dopo già altri 4 tentativi, cosa farai? “ avevamo chiesto in chiusura di intervista a Daniele. “Comincerò a piangere. Quando arriverò in vetta al Nanga Parbat, penso che comincerò a piangere”, era stata la sua risposta sincera.

“E se tu non dovessi tornare, come vorresti essere ricordato?”: ”Come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile e però non si è arreso”, aveva concluso. 

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